La presa di coscienza: il fardello del passato che si alleggerisce nel futuro

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Teresa Colaiacovo -  La presa di coscienza: il fardello del passato che si alleggerisce nel futuro

“…Accettare le cose per quello che sono.E l’ombra che si portano appresso, considerarla alla stregua di un dono…” F. Marcoaldi

Loredana (nome di fantasia) dopo aver lasciato la seduta in seguito alla telefonata allarmante della suocera, ritorna in studio.

Esordisce dicendomi “ mio marito è ancora in Ospedale perché devono fare indagini su indagini, sta male… credo che questa sia la mia punizione divina per averlo tradito con Marcello..”

Vado oltre il pensiero magico e le domando come sta lei in questo periodo e cosa prova.

Mi dice: “io odio i medici, odio le indagini, mi ricordano mia mamma quando ispezionava i miei capelli per indagare nel caso ci fossero pidocchi…una volta me li ha rasati, ho pianto per un sacco di notti.”

Guardo i capelli lunghi e lucenti di Loredana e le dico che ora ha dei capelli bellissimi, le chiedo come vive nel suo corpo.

Mi dice: “dottoressa per anni mi sono sentita brutta, un anatroccolo, poi le cose sono andate meglio anche grazie a Marcello, nonostante anche lui mi guarda come se non fossi perfetta.

Le chiedo chi altro la guarda in un modo simile e mi dice: mia mamma ovvio, mia sorella, il mio capo, ora anche mia figlia… l’unico che mi guarda e mi vede sempre bella è mio marito.

Dopo la gravidanza ero inguardabile, ma per lui ero sempre bellissima.. quest’atteggiamento mi innervosisce e spesso penso che lui voglia vedermi un cesso per timore di essere abbandonato, così se sono brutta non lo lascerò mai”…

Le chiedo: “ lei non ha deciso di interrompere il suo rapporto per paura di non trovare un altro uomo a cui piacesse?”

Mi dice:” si, penso di si, altrimenti avrei realizzato la profezia di mia mamma: non cocluderai mai nulla e morirai da sola.”

Le chiedo: “secondo lei Eleonora sua madre perché le diceva queste cose?”

Mi dice, con uno sguardo certo, “perché mia sorella sarebbe andata a studiare all’estero e lei aveva paura che anch’io la abbandonassi e quindi pensava che riducendomi ad una nullità, le avrei fatto compagnia per sempre.”

La guardo e le chiedo di suo padre e mi dice: “un uomo infelice che ha lasciato mia mamma quando avevo 4 anni, non lo ricordo nemmeno, non ricordo nulla di lui ed è come se un padre non lo avessi.”

Affermo: “un padre c’è sempre, anche quando non c’è.”

In estrema sintesi la funzione paterna consiste nell’interdizione dell’incesto e nell’introduzione della legge che, ponendo un limite all’anarchia delle pulsioni, consente loro di acquistare una forma evolutiva e di accedere al pensiero. Per incesto è da intendersi qui una con-fusione indifferenziata tra sessi e generazioni alla quale si contrappone la legge paterna come limite generativo.L’interdizione dell’incesto, ma anche contemporaneamente la protezione dall’incesto come rischio di una regressione mortifera, instaura la struttura edipica, cioè fonda la conflittualità tra sessi e generazioni secondo un vettore di sviluppo che consente una evoluzione, una crescita, un apprendimento dall’esperienza altrimenti impossibile. La funzione paterna è dunque garante della civiltà, sia nel microcosmo familiare, sia nella società.

Franco Fornari, distinguendo tra “codice materno”, che interpreta sulla base dell’affetto e della comprensione, e “codice paterno”, che interpreta invece sulla base del rigore e della frustrazione, ha espresso l’idea che la nostra società soffra di un eccesso di codice materno a discapito di quello paterno. Ciò comporta una stagnazione evolutiva, una difficoltà a crescere per impreparazione ad affrontare le durezze della vita adulta. Se questo è ampiamente condiviso, resta tuttavia difficile immaginare una rifondazione del codice paterno in una società non più sorretta da orizzonti simbolici in grado di giustificarlo e renderlo attendibile e riconoscibile.Se la funzione paterna resta sempre la medesima nel suo compito di introdurre una separazione fondante, senza la quale vi sarebbe un caos informe ed infecondo, un trionfo della pulsione di morte, come possiamo osservare in tante patologie legate alle varie forme di dipendenza, tuttavia il suo esercizio non può più essere appannaggio dei soli padri reali, deve diventare una tensione condivisa, sia in ambito familiare che sociale.La funzione paterna è oggi una funzione che astrae dalla concretezza sessuale del maschile, che pur ne rappresenta la testimonianza simbolica, per diventare un compito culturale che interessa l’intera società alla ricerca di nuovi parametri di senso che sappiano conferire un ordine semantico ed etico non più riconducibile a dogmi assunti come assoluti.[1]

Il legame amoroso di coppia (romantic love) può essere considerato, come si è detto, una relazione d’attaccamento, infatti ne presenta tutte le caratteristiche fondamentali: la ricerca della vicinanza, la protesta per la separazione e l’effetto base sicura. Abbiamo visto che, in questo caso, l’attaccamento è solitamente caratterizzato da una maggiore simmetria e reciprocità del rapporto. In una relazione

amorosa tra adulti, infatti, entrambi i membri della coppia dovrebbero essere in grado di svolgere funzioni di attaccamento nei confronti del partner. Questo legame, però, si distingue da ogni altra forma di attaccamento infantile o adulto per l’integrazione dell’attaccamento con i comportamenti sessuali e di accudimento .

Non tutte le relazioni di coppia, ovviamente, presentano queste caratteristiche, ma quando manca una componente il legame perde la sua connotazione e non può essere considerato amoroso. Un rapporto che non offre conforto e sicurezza, ma è basato soltanto sulla attrazione sessuale, tende a configurarsi più come una relazione tra amanti. Allo stesso modo, anche l’espressione della sessualità genitale è indispensabile, in caso contrario il legame di coppia risulterebbe simile a quello tra parenti o tra amici (Baldoni 2004). [2]

Chiedo a Loredana: “come immagina suo padre?”

Mi dice: “infelice, perché difficilmente con mia madre e le sue turbe, poteva essere felice, amorevole, instancabile nella sopportazione… forse un po’ come mio marito.”

Le dico:” lei si sente come sua mamma? “ Mi dice: se lo tradisco, se questa settimana ho pensato più a Marcello, al fatto che non riuscivamo a vederci che a lui, probabilmente sono anche peggio di mia mamma…

Loredana scoppia a piangere, rispetto le sue lacrime con il silenzio.

E lei sembra piangere e guardare il mio silenzio, smette di piangere, si raccoglie i capelli, piega la testa e sta in silenzio, guardando il soffitto.

Il silenzio ha un valore benefico, quello  di passare del tempo fisico ed emotivo senza distrazioni e/o sovraccarico di stimoli sensoriali che è stato riconfermato sia dal punto di vista psicologico[3] (Price-Mitchell, 2013) che dal punto di vista fisiologico [4](Novotney, 2011). questo silenzio è l’utilizzo del tempo nel quale il clinico  permette al paziente di adattarsi all’ambiente e all’atmosfera terapeutica, creando una relazione  costruita sull’empatia e sulla fiducia. Di fatto, anche attraverso l’assenza di parole ed attraverso l’utilizzo della comunicazione para e non verbale, il paziente contestualizza feedback riguardanti l’ambiente e le sue sensazioni sul processo terapeutico (Liegner, 1974).[5]Permettendo al paziente di stare in silenzio, il terapeuta gli lascia spazio alle riflessioni e alle emozioni, facendo sì che esso possa poi iniziare il suo percorso analitico con più sicurezza: uno degli errori meno preferibili da attuare, se non assolutamente da evitare, da parte dell’analista, è quello di dare l’idea di avere fretta o imporre dei totali limiti di tempo alle sedute e al processo terapeutico, così da rovinarlo[6] (Cicerone, 2019)Come disse Paul Watzlawick “non si può non comunicare”[7] (1971) e il silenzio nella seduta  può essere, nei tempi e negli spazi giusti, uno dei migliori tipi di comunicazione terapeutica.

Dal punto di vista cognitivo il silenzio può essere proprio il segnale che finalmente il paziente non riesce più a usare come risposta i suoi automatismi e le sue convinzioni. In questo vuoto il paziente sta sperimentando una frustrazione che forse non è così terribile, sta sperimentando che forse non è sempre necessario sapere come andrà a finire e trovare una risposta.[8]

Ad un certo punto Loredana mi dice: “dottoressa ma io diventerò coma mia mamma?”

Le rispondo: “spesso una simile paura, pur annidandosi spesso al di sotto della soglia della consapevolezza, ha un potere di condizionamento fortissimo, al punto da spingere tante donne a fare l’opposto, proprio per scansare la minaccia di ripeterne il destino e di essere simili a lei.” [9]

Chiedo, inoltre:” per cosa sua figlia le direbbe grazie mamma?”

Mi dice: “mi direbbe e dice grazie perché le racconto tante favole, perché la porto a giocare al parco, perché le preparo le patatine fritte quando è stanca e perché le dico sempre che è bellissima.”

Le chiedo: “per cosa suo marito dovrebbe dirle grazie?”

Lei ci riflette e mi dice: “perché faccio un arrosto con patate eccezionale, perché ascolto sempre i suoi seminari, lui insegna all’università e spesso ha bisogno che ascolti le sue lezioni, perché gli stiro le camicie come piace a lui e perché gli ricordo sempre che è il padre che avrei sempre voluto avere.”

Sorride alla fine e mi dice: “sa, dottoressa, non credo di essere come mia madre… grazie.”

È terminata la seduta e mi dice: “ho proprio voglia di andare da mio marito in Ospedale e dire a lui i miei grazie.”

Mentre la guardo prendere la borsa rifletto su un pensiero che ha accompagnato il mio percorso clinico: “è di fondamentale importanza che un soggetto possa intersecare i propri vissuti identitari con altre persone. Tale esperienza, infatti, gli consente di introdurre nuovi orizzonti di senso che aprono a modalità nuove di ascolto del desiderio, a nuove possibilità progettuali e a nuove realizzazioni e impegni”[10] (Busso, Stradoni, 2011, p.72)

Probabilmente è ciò che voglio fare con Loredana, voglio mostrale le sue relazioni, i bisogni a cui rispondono e trovare con lei i desideri che la abitano.

Prima di salutarci le lascio un bigliettino con su scritto: 

“ E tu chi sei?

“io…non so bene, al momento – rispose Alice alquanto esitante- al massimo so chi ero stamattina quando mi sono alzata ma penso di essere cambiata parecchie volte nel corso della giornata.” (L.Carroll)

Loredana lo legge, sorride ed esce.


[1]  PELLIZZARI G. https://www.spiweb.it/la-ricerca/ricerca/funzione-paterna/#:~:text=In%20estrema%20sintesi%20la%20funzione,e%20di%20accedere%20al%20pensiero.

[2] Baldoni F. (2004): Attaccamento di coppia e cambiamento sociale. In Crocetti G. (a cura di): Il girasole e l’ombra. Intimità e solitudine del bambino nella cultura del clamore. Edizioni Pendragon, Bologna, pp. 95-109

[3] Price M -Mitchell, “The Importance of Silence in a Noisy World.”, “Psychology Today”, 2013;

[4] Novotney, A. “Silence, please”, “American Psychological Association”, 2011;

 

[5] Liegner,  E “The silent patient”, “Psychoanalytic review”, 1974;

[6] Cicerone,  P.E “Il Silenzio è d’Oro”, “Mind”, n.180, 2019;

[7] Watzlawick,  P. J.H.Behavin, D.D.Jackson “Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi”, Astrolabio, 1978;

[9] -ci identifichiamo con il modello dei nostri genitori (ci impegniamo ad essere proprio come loro o assolutamente diversi: ad esempio esigenti e pretenziosi se abbiamo avuto genitori molto severi o al contrario ribelli ad ogni richiesta severa),

-reagiamo da adulti nello stesso identico modo in cui abbiamo fatto da piccoli con i nostri genitori (ci comportiamo come se fossimo ancora quei bambini che siamo stati e mamma o papà fossero qui ad agire nel solito modo; ad esempio ci sentiamo umiliati e rimproverati ogni volta che qualcuno ci fa notare qualcosa),

- trattiamo noi stessi proprio come facevano loro (ad esempio diventiamo autocritici e severi proprio come hanno fatto con noi).

 

[10] BUSSO P., STRADONI P. Il sé professionale, Rivista Caleidoscopio Relazionale, vol. 1, Scione, Roma, 2011

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