Ho fatto una cosa mostruosa ma era necessaria. Mi rendo conto dell’enormità ma non c’erano alternative. Mailyn è la figlia femmina che non ho mai avuto”.
Parole pesanti come macigni quelle pronunciate da Lorena Venier, l’infermiera di 61 anni, di Gemona (Udine) che, assieme alla nuora, Mailyn Castro Monsalvo, 30 anni, cittadina colombiana, ha ucciso e fatto a pezzi il figlio Alessandro di 35 anni.
La donna, per circa tre ore, ha parlato davanti al magistrato, spiegando nel dettaglio ciò che è accaduto. Una ricostruzione così circostanziata che ha portato la Procura a contestare l’aggravante della premeditazione. Sarà il gip, domattina, nell’udienza di convalida, a decidere se sarà applicata. Intanto, si è capito di più del movente dell’ omicidio: il giorno dell’assassinio, il 25 luglio, e la premeditazione non sarebbero stati casuali: Alessandro Venier è morto alla vigilia della partenza per la Colombia, il luogo dove aveva deciso di andare a vivere. Non sarebbe partito da solo, avrebbe portato con se la compagna e la figlia di sei mesi: una scelta non condivisa né dalla stessa Mailyn né dalla madre di lui. Quest’ultima non voleva perdere quella che ha definito ‘la figlia che non aveva mai avuto’ e con la quale si era cementato un sentimento di forte affetto, ricambiato e rafforzatosi in una una alleanza stimolata da un comune sentire. E Mailyn non avrebbe voluto tornare nel suo Paese. Né Lorena Venier voleva separarsi dalla piccola con la quale il legame forse è ancora più forte.
Pierpaolo Martucci, docente di Criminologia all’Università di Trieste, ritiene che l’efferatezza sia dovuta a una frustrazione covata a lungo.
Non ci sono precedenti in Italia, e nemmeno in Europa, di una madre che abbia ucciso e fatto a pezzi il proprio figlio adulto. Le responsabilità sono ancora da attribuire e le indagini faranno il loro corso, ma questa situazione è un unicorno nel panorama degli omicidi familiari. Com’è stato possibile arrivare a una simile atrocità? Lo abbiamo chiesto al professor Pierpaolo Martucci, docente di Criminologia all’Università di Trieste e componente della Società italiana di criminologia.
“E’ un caso molto molto raro effettivamente che però ha delle affinità con delle dinamiche legate ai contesti familiari di una famiglia disfunzionale violenta. La moglie/madre può anche coalizzarsi con figlio o figlia per contrastare e affrontare il responsabile dell’abuso fino all’esito estremo, la soppressione del marito e padre. E’ come se in qualche misura questo figlio poi diventato adulto invece di essere fonte di supporto o di aiuto o gratificazione fosse diventata un po’ la figura negativa paragonabile a quella di un marito/compagno che in qualche modo esercitava questo dispotismo”
Che cosa può dirci sull’efferatezza di questo omicidio?
“Fa pensare ad una frustrazione covata per tanto tempo, fare a pezzi il cadavere fa pensare ad un’aggressività che si sprigiona dopo molto tempo che è stata compressa. Come dire ‘io non ti riconosco più come figlio e ti faccio a pezzi’.
Poi c’è anche l’aspetto pratico, il desiderio di tentare di occultare la cosa, restando sempre nei confini di questa casa in cui si consuma tutto.
Poi la pratica infermieristica e l’abitudine ad affrontare certe situazioni anche cruente, può anche aver dato la capacità e la forza psicologica di agire in quel modo”
4. Comportamento della madre dopo l’uccisione del figlio
Non si può certamente tracciare uno schema di comportamento dopo l’uccisione del figlio valido per tutte le madri. Ogni caso va considerato nella sua specificità. Il comportamento posto in essere dalla figlicida, dopo la commissione del delitto, può dipendere da molteplici varianti; nello specifico: la presenza e il tipo di malattia mentale; il rapporto con la famiglia d’origine e la famiglia acquisita; la capacità di introspezione e di accettazione in relazione all’omicidio; il tipo e la qualità di vita nel contesto penitenziario; l’accettazione e la sensibilità a trattamenti psicoterapeutici e farmaceutici. Nelle fasi successive all’arresto è comunque altissima la percentuale di rischio suicidiario.
Tale rischio può essere riscontrato nelle madri depresse, incapaci di vivere, che hanno ucciso il figlio in un contesto suicidiario allargato e che possono, immediatamente dopo l’omicidio, cercare di uccidersi con più o meno successo. Durante la stesura degli atti d’indagine la madre figlicida può verbalizzare di aver fatto un patto di suicidio con il suo bambino e quindi di dover uccidersi al più presto. Altre madri, invece, parlano di una promessa vaga di uccidersi, ad esempio di date ritenute importanti (es:. ricorrenza della morte del figlio). Giova far presente che, nella fase successiva all’arresto, i membri della famiglia in genere prestano aiuto alle madri che hanno ucciso il figlio. In questo momento fondamentale e particolarmente delicato per l’identificazione dell’autore del reato, i familiari cercano spesso - in un processo velato di negazione - di attribuire la colpa di quanto successo non alla madre, bensì a terze persone, oppure a stati temporanei di malattia: il tutto finalizzato alla protezione e continuazione di una relazione con l’autrice del delitto.
Nella fase che precede la conclusione del processo, invece, la madre figlicida risulta a disagio, revoca la sintomatologia ansiosa e ciò per svariate ragioni che, da un lato, vedono l’instaurarsi della reazione da lutto, dall’altro, una condizione recettiva dovuta allo stato di detenzione in prigione, con tutti i problemi connessi alla perdita della libertà, all’etichettamento attraverso i mezzi stampa, alla difficoltà a parlare, muoversi e gestirsi attraverso un particolare ambiente come quello dell’istituzione penitenziaria. In questi frangenti è solito il verificarsi continuo di momenti pericolosi che possono stimolare il passaggio all’atto suicidiario. Invece, dopo il processo, le donne che hanno ucciso il proprio figlio vanno incontro, generalmente, grazie al meccanismo di negazione, ad una fase temporanea di apparente relativa tranquillità e riduzione dell’ansia. Altre invece, senza una partecipazione emotiva adeguata e profonda, si sentono sollevate dall’ansia e dai sentimenti di colpa a causa della pena inflitta, come se fosse una moneta con la quale pagare il delitto compiuto.
Altre ancora ritengono la pena troppo mite e breve perché meriterebbero, dopo l’orrendo delitto compiuto, di restare in “prigione per l’eternità”. Passata questa fase di negazione irrompe il reale, ovvero il fatto che diventa sempre più chiaro alla loro coscienza che il bimbo non c’è più, che è stato ucciso da loro e che loro sono le uniche responsabili della morte del figlio innocente. In questa fase di contatto duro e penoso con la realtà aumentano i rischi suicidiari che non sempre sono rilevati. Molte di queste madri, in ambiente carcerario, pur coltivando nel loro interno desideri suicidiari, in realtà manifestano nella vita organizzata un buon adattamento mostrandosi attente, riguardose, premurose, curando l’igiene personale, partecipando alla vita sociale e mascherando la loro depressione, la loro ansia e le loro intenzioni suicidiarie. Un comportamento di tale genere in periodi immediatamente successivi al processo, non può che essere attentamente vagliato ed approfondito in ragione del possibile rischio suicidiario.
5. Considerazioni conclusive
Facendo un quadro conclusivo per quanto concerne il fenomeno del figlicidio, nonché cercando di fornire quegli elementi che permettano una visione oggettiva e particolareggiata del problema, si può affermare - in base ai risultati di studi specifici - che un terzo dei casi è riconducibile ad una motivazione inerente a una grave malattia mentale in relazione soprattutto a patologie facenti parte della serie depressiva (spesso nell’ambito di un progetto patologico di suicidio allargato) e paranoidea (omicidio altruistico per salvare il bambino da forze persecutorie, maligne e mortifere)(8); nei restanti due terzi, le figlicide sono affette da disturbi di personalità (antisociale, bordreline, immatura, ecc.), disturbi questi che non permettono loro una gestione normale di situazioni di vita difficili e penose (es. perdita di familiari, allontanamenti, frustrazioni sociali e personali, ecc.), di problemi legati alla tossicodipendenza, in situazioni emotive caratterizzate da difficoltà ad acquisire un ruolo materno consapevole e responsabile. Indipendentemente dalla eventuale patologia del soggetto, prima di arrivare alla condotta di reato ci possono essere dei sintomi inequivocabili che, se analizzati con le dovute cautele, possono mettere in allarme e far intravedere che le condizioni psico-fisiche della persona al momento sono deficitarie e necessitano di cure o quantomeno di un intervento medico immediato.
La trascuratezza che accompagna la “madre” abbisognevole di aiuto, dal punto di vista morale e/o materiale, può essere determinante. Ad un certo momento la madre si sente abbandonata e depressa, nelle forme più gravi può diventare imprevedibile e può esplodere improvvisamente in modo crudele. In alcuni casi la depressione può essere scatenata proprio dal puerperio e la malattia può manifestarsi in modo particolarmente grave fino ad arrivare a veri e propri deliri come nella psicosi puerperale. Giova far presente che il puerperio può essere un momento drammatico e pericoloso, tanto che nelle famiglie di un tempo la donna che aveva avuto un bambino veniva assistita e circondata da protezione. La puerpera veniva seguita per diversi mesi perché tutto il gruppo familiare sapeva che in quella fase non si poteva escludere il rischio di gravi crisi psico-fisiche. Ecco l’importanza della famiglia, che dovrebbe rappresentare quell’aiuto morale e materiale che la donna post-partum cerca e che invece spesso le viene drammaticamente negato. Durante il puerperio, per esempio, la donna cambia tipo di alimentazione, diminuiscono le ore di sonno, possono comparire febbri o infezioni. Ma soprattutto, con il parto l’organismo della donna vive una profonda crisi di astinenza dagli ormoni che l’hanno protetta durante la gravidanza.
Quindi risulta molto importante, in determinati momenti, il comportamento della famiglia di origine e di quella acquisita. Ma la famiglia di oggi è in crisi. La famiglia odierna, specialmente nella società urbana industrializzata, è una famiglia ristretta. Oggi, marito e moglie sono soli, l’uno di fronte all’altro, molte volte non c’è dialogo, devono inventare ogni mattina il loro rapporto. Nella vecchia famiglia estesa, il gruppo primario concedeva al marito o alla moglie in crisi qualche scappatoia o uscita di emergenza. All’interno del gruppo vi era sempre qualche persona pronta ad ascoltare, dare consigli, intervenire se necessario. Adesso, purtroppo nella maggioranza dei casi non è così: c’è la solitudine che è diventata un vero e proprio nemico da combattere giornalmente. Oggi la futura mamma può trovarsi nella condizione di non poter contare su nessun aiuto da parte sia della famiglia d’origine sia di quella acquisita e le difficoltà, che la vita pone giornalmente sulla sua strada, diventano ancora più grandi.