UN NUOVO NATALE PER UN PAZIENTE DESIGNATO

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Teresa Colaiacovo - UN NUOVO NATALE PER UN PAZIENTE DESIGNATO

“…Non sono i grandi dolori che fanno la sofferenza né le grandi gioie che fanno la felicità, ma è il tessuto fine e impercettibile di mille circostanze banali, di mille particolari sottili che compongono tutta la vita di calma radiosa o agitazione infelice…“**[1]**

Clemente (nome di fantasia) ha 46 anni quando inizia un percorso psicologico con me…

Esordisce dicendomi: “odio le festività comprese quelle di Natale perché mi fanno stare male visto che non ho più una famiglia e sono completamente solo…”.

Gli chiedo cosa significa che non ha più famiglia e mi dice: “beh… i miei genitori oramai sono interessati a mia sorella ed ai suoi figli, lei dei due è quella in gamba.. io sono sempre stato quello strano e che doveva farsi curare..”

Gli domando: “ e se non fosse stato lei quello strano chi sarebbe stato lo strano della famiglia?”

Mi dice: “beh… mio zio, io sono uguale a lui..”

Gli dico: “com’era suo zio?”

Mi dice; “ uno che ha rifiutato il posto fisso per viaggiare e vivere un po’ a caso, uno che non si è sposato o fatto figli, uno che si divertiva con poco… che frequentava anche persone equivoche e come dicono i miei uno che si vestiva da straccione…”

Il Paziente designato o Paziente identificato (identified patient – “PI”), è la persona che, in una famiglia disfunzionale, viene scelta inconsciamente per esplicitare e rendere visibili i conflitti intrafamiliari.

E’un concetto che rimanda all’ipotesi che il funzionamento problematico di un membro (il più delle volte si tratta di un figlio) rappresenta, in realtà, un sintomo di una problematica generale del sistema familiare di cui egli fa parte.

Il figlio sintomatico, dunque, è il portavoce della sofferenza che affligge l’intero Sistema famiglia.

Il paziente designato e i suoi comportamenti alterati hanno una duplice e ambivalente funzione:

  • l’espressione dei sintomi psicopatologici è una richiesta di aiuto per sé e per la propria famiglia. Come effetto secondario, infatti, l’espressione del sintomo di uno, porta alla luce il problema più generale del gruppo di cui fa parte.
  • l’espressione del sintomo in un solo membro del gruppo permette allo stesso tempo di nascondere conflitti relazionali presenti tra gli altri membri.[2]

Le relazioni familiari nelle famiglie disfunzionali risultano il più delle volte simbiotiche e, di conseguenza, lo stato emotivo di ciascun membro è fortemente influenzato da quello degli altri. Questo fa sì che ciascuno impieghi gran parte delle proprie energie per contenere e gestire i livelli emotivi dei familiari, trascurando i bisogni individuali e le proprie necessità emotivo/affettive. Quando in queste famiglie si verifica un aumento di tensione, soprattutto tra i coniugi, l’intero sistema si attiva per scongiurare che la tensione culmini nella rottura del rapporto. All’interno del sistema familiare le tensioni vengono gestite attraverso alleanze, coalizioni e triangolazioni tra due o più membri del gruppo ed è proprio a queste dinamiche che bisogna prestare costante attenzione.[3]

Il primo studioso a parlare di paziente designato fu Bateson. Lo definì come la persona sintomatica, all’interno di un Sistema-Famiglia, che viene identificata come la causa di tutti i problemi della famiglia stessa (capro espiatorio): il membro scelto in modo subconscio per manifestare i conflitti interni della famiglia; colui che è il portatore scisso del disturbo (molto probabilmente transgenerazionale) della famiglia. Il paziente identificato è di solito colui che cerca per primo un aiuto psicoterapeutico in quanto percepisce profonda sofferenza ed importanti tensioni; talvolta è la famiglia stessa che manda il PI in terapia nella speranza che “guarisca” e che si risolvano così tutte le tensioni intrafamiliari che non vengono caratterizzate da un aspetto di “corresponsabilità”.

Il paziente designato, dunque, non è altro che colui che assume su di sé l’intera sofferenza della sua famiglia, con un tentativo estremo di mantenerne l’unità e l’omeostasi anche se non funzionale al benessere del Sistema stesso.

È importante sottolineare che in questa dinamica non è possibile individuare delle vittime e dei colpevoli. Il processo relazionale che conduce all’emergere di sintomi psicopatologici in un figlio si caratterizza, infatti, per essere un processo circolare:

  • da una parte i genitori cercano di risolvere le proprie difficoltà coniugali coinvolgendo il figlio.
  • dall’altra, il figlio stesso, attraverso un atto sacrificale, sceglie di assumere su di sé la responsabilità di risolvere le difficoltà della sua famiglia.

Paradossalmente, via via che il paziente designato sta meglio, la famiglia o il gruppo tendono a resistere o a ripristinare lo status quo. La guarigione o il miglioramento del PI, infatti, spostano l’equilibrio mettendo in crisi tutto il gruppo che si ritroverebbe costretto a mettere in discussione le proprie dinamiche interne.[4]

Quando il terapeuta capisce che la persona che ha davanti è un paziente designato dovrebbe considerare di inglobare nella terapia tutta la famiglia dato che il germe patologico non è personale bensì, sistemico. E’ il sistema famiglia che non funziona e non l’individuo (anche se è quest’ultimo a manifestare i sintomi).

Dopo che Clemente mi ha raccontato della sua solitudine, della sua paura di avere relazioni, gli chiedo: “ cosa la farebbe sentire meno solo?”

Mi dice: “forse essere almeno quest’anno di nuovo quello strano della famiglia e quindi fare almeno una cena con loro..”

ll paziente designato spesso è da considerarsi come “porta d’entrata” nel sistema familiare, in quanto finisce per rappresentare l’occasione per l’evoluzione del processo terapeutico. Pertanto risulta produttivo stringere fin dall’inizio un patto fiduciario con il “PI” anche implicito o non verbalizzato. Tale “complicità” è realizzabile attraverso due fondamentali operazioni del terapeuta:

1) la prima consiste nel neutralizzare precocemente i vantaggi secondari che ogni paziente tende ad assicurarsi più o meno apertamente come rivalsa per il suo ruolo problematico e di “diverso”, ad esempio esercitando centralità assoluta a casa e in seduta; la strada migliore per il terapeuta sembra quella di entrare il meno possibile nella sfera delle connotazioni di patologia, evitando di riconoscere e di etichettare come patologici comportamenti presentati e ostentati come tali. A tal proposito il terapeuta spinge il paziente e la famiglia a spostarsi su altri livelli, più complessi e meno circoscrivibili: ad esempio dal livello del disturbo psichiatrico ci si sposta su quello della crisi evolutiva della famiglia.    

2) la seconda consiste nel cercare di sollecitare le parti sane e le risorse, senza confrontarsi con la sola identità negativa presentata dal paziente: in questo modo, quest’ultimo, sarà maggiormente disponibile a collaborare, scorgendo la possibilità di liberarsi da pesi funzionali e da tensioni che gravano su di lui, ma che appartengono anche ad altri interlocutori e ad altre generazioni.    [5]

L’obiettivo, quindi, non è affatto quello di negare i sintomi, ma semplicemente di spostarli di livello, dando loro un valore diverso: da immagine cristallizzata del fallimento di molti, gli stessi sintomi vengono usati come segnali capaci di indicare percorsi alternativi a una famiglia altrimenti bloccata.    [6]

Il paziente, oltre a rappresentare la porta d’entrata nel e del sistema, può fungere da vera e propria guida del processo terapeutico; diventa una sorta di filo di Arianna che ci aiuta ad orientarci nel fitto labirinto delle trame familiari e delle annesse sintomatologie. Attraverso la psicoterapia familiare il soggetto “paziente designato”, a questo punto non avendo più la necessità di proteggere la stabilità della propria famiglia, può ritrovare la personale libertà sottomessa in virtù del sacrificio, e può tornare ad agire in autonomia, spogliandosi pertanto del sintomo psicopatologico.[7]

Chiedo a Clemente di parlarmi dei pregi che vedeva in quello zio visto come strano dalla famiglia e mi dice: “era un uomo colto, leggeva di tutto e citava spesso Flaubert, poi sapeva suonare la tromba, andava in giro sempre con la tromba e sorrideva e io non ho mai visto la mia famiglia sorridere se non quando c’era lui..”

Dico: “e ora che lui non c’è più come fa a sorridere la sua famiglia?”

Mi risponde: “in effetti, non sorridono… “

Dico ancora: “secondo lei suo zio cosa consiglierebbe a lei di fare per farli tornare a sorridere?”

Mi risponde: “beh.. è facile, mi direbbe di andare da loro così come sono e mangiare a mio modo perché anche il mio modo di mangiare li fa ridere, nonostante mi dicano che ho problemi e che mi devo far curare..”

Sorrido anch’io e dico a Clemente: “che ne dice di provare a scrivere una lettera ai suoi familiari in cui li ringrazia per qualcosa…”

Clemente mi dice: “ci posso provare, ma non è facile…”

Gli dico: “è più facile, secondo lei, essere quello strano e scappare piuttosto che ringraziare?”

Clemente scoppia a ridere e mi dice: “lei è forte, fissiamo il prossimo appuntamento.. Flaubert direbbe” Per avere del talento, dobbiamo essere convinti di posseder**ne… e credo che lei Dottoressa lo sappia di sé.

Sorridiamo insieme.


[1] FLAUBERT G.

[2] Andolfi M. Il bambino nella terapia familiare. Franco Angeli.

[3] Bowen M. (19799. Dalla famiglia all’individuo, Casa Editrice Astrolabio.

[4] Minuchin S. (1976). Famiglie e terapia della famiglia, Casa Editrice Astrolabio.

[5] Selvini Palazzoli et al. (1975). Paradosso e controparadosso, Raffaello Cortina Editore.

[6] Hoffman L.(1984). Principi di terapia della famiglia, Casa Editrice Astrolabio.

[7] Bowen M. (19799. Dalla famiglia all’individuo, Casa Editrice Astrolabio.

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