Si può davvero perdere la propria madre? la ricerca delle tracce e delle parole (part. 1)

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Teresa Colaiacovo - Si può davvero perdere la propria madre? la ricerca delle tracce e delle parole (part. 1)

“….La morte non è la più grande perdita della vita. La più grande perdita è ciò che muore dentro di noi mentre stiamo vivendo….” NORMAN COUSINS

Marco (nome di fantasia) mi contatta perché dopo la perdita della madre non riesce ad elaborare il lutto e si sente spaesato.

Quando arriva da me mi racconta della sua infanzia, del suo legame con la mamma, del bisogno che aveva da lei.

Si interrompe e mi dice: “ ho tanti rimpianti.. perché negli ultimi anni sono stato cosi preso dal lavoro che la vedevo poco… e poi anche le donne, gli amici, insomma non la vedevo come un figlio dovrebbe vedere una mamma..”

Gli domando: “come un figlio dovrebbe vedere una mamma, secondo lei?”

Mi dice: “un buon figlio, almeno una volta a settimana… io la vedevo una volta ogni due mesi e anche al telefono non avevo voglia di parlarci più di tanto..”

Gli domando se sogna e mi dice: “negli ultimi 3 mesi sogno mia madre che mi rimprovera e le do ragione, lei aveva ragione ed io ho fatto schifo.. su tutto, forse anche la mia vita è uno schifo..” Mentre mi parla ho la sensazione che abbia bisogno di essere in qualche modo compreso e di sentirsi dire che ha ragione. Alla fine gli domando il perché la sua vita sia uno schifo. Lui mi risponde: “ perché alla fine lavoro, ho donne, ma non mi soddisfa.. è come se non avessi pace”

Mentre mi dice queste parole ripenso al monologo finale di un film che avevo visto tanti anni fa https://youtu.be/6WK6o1guFaI e penso che Marco non abbia la pace dell’anima.

Gli chiedo di parlarmi della perdita della madre, mi dice: “non c’ero, ha dell’incredibile perché stava bene da quello che mi raccontava al telefono e nonostante tutto è morta, senza dirmi nulla, senza avvisarmi prima, io non riesco a crederci…”

Parlo con Marco delle varie fasi di elaborazione del lutto, la psichiatra Kübler Ross elaborò nel 1969 la Teoria delle cinque fasi del lutto teorizzando il processo che porta ad elaborare la perdita:

  • Fase della negazione o del rifiuto: “non è possibile, non ci credo”: si tende a negare la perdita e rifiutare la realtà come meccanismo di difesa;
  • Fase della rabbia: “perché proprio a me? Cosa ho fatto per meritarmelo?” si può sperimentare ritiro sociale, solitudine e necessità di direzionare il dolore e/o la sofferenza esternamente o internamente, vivendo il lutto come un’ingiustizia;
  • Fase della contrattazione o del patteggiamento: “se supero questo momento, non farò più errori” si cerca di riacquisire l’esame di realtà e trovare delle strategie per affrontare il problema;
  • Fase della depressione: “non posso farcela, la mia vita così non va” si prende consapevolezza della perdita, pensando a cosa non si potrà più condividere;
  • Fase dell’accettazione del lutto: “ora bisogna andare avanti” si arriva alla totale elaborazione ed accettazione della perdita, si comprende di non essere gli unici ad avere quel dolore e che la morte è inevitabile.

Le fasi del lutto non sono obbligatoriamente presenti in modo sequenziale, bensì possono presentarsi con tempi e modalità diverse da persona a persona.[1]

Chiedo a Marco in quale di queste fasi si rispecchia e lui mi dice: *“ovvio, la prima… ma lo sa anche lei..” *

Gli domando il perché è cosi sicuro che io dovrei saperlo e lui mi risponde: “se sono qui da lei è perché sogno mia mamma, è perché non mi do pace e perché ho bisogno di trovare un minimo di pace..”

Gli chiedo di raccontarmi un ricordo bello e uno brutto che ha la mamma, lui mi dice che è troppo doloroso, ma se mi giro di spalle e se avessi un lettino potrebbe provarci.

Le sue parole mi fanno pensare alla tecnica analitica di non essere uno di fronte all’altro, visualizzo l’immagine del lettino e  mi vengono in mente le parole di Ogden  di quando propone l’uso del lettino ai suoi pazienti,  dicendo che questo specifico assetto consente sia al paziente che al terapeuta di dire cose che altrimenti avrebbero più difficoltà a dire e facilita il terapeuta ad ascoltare meglio ciò che vi viene detto dal paziente. [2]

A quel punto gli chiedo di schiacciare il pulsante sulla poltrona in modo da farla diventare un lettino e sposto la mia mettendomi dietro.

Mi sento incapace per quanto appassionata di psicoanalisi, ma lo considero un atto fatto per il paziente, un atto terapeutico.

Chiedo a Marco se è comodo e come si sente, forse ero io quella ad aver più timore, mi risponde: “sto benissimo e cosi mi sento meno fragile davanti a lei…”

Mi racconta prima del ricordo brutto con la mamma: “ avevo forse 8/9 anni e sono caduto, mia mamma mi ha riempito di insulti, mi ha detto che era colpa del mio essere maldestro e che non avrei mai trovato una fidanzata…in realtà ho cominciato a trovare fidanzate a 11 anni e gliele ho fatte vedere tutte..”

Leggo nelle parole di Marco una certa soddisfazione, come un senso di rivalsa.

Gli chiedo: “tutte le donne che mi diceva prima di aver avuto erano donne che amava in qualche modo?”

Mi dice secco: “la maggior parte le ho solo usate per dimostrare a me stesso che potevo avere tutto ciò che volevo”

Gli chiedo: “ a sé stesso o a sua mamma?”

Mi dice: “ora che mi ci fa pensare… forse a mia mamma e tra l’altro da quando è morta ne ho avuto ancora di più, cosi magari se lei mi vede può ritenersi soddisfatta..”

Penso a quanto spesso un scambio comunicativo tra genitore e figlio possa forgiare il figlio che si auto-costruisce aspettative genitoriali che, probabilmente, sono frutto di idee personali.

Secondo Winnicott la creatività consiste nel mantenere nel corso della vita, qualcosa che appartiene all’esperienza infantile: la capacità di creare il mondo..[3]

Dico a Marco se, secondo lui, quest’esperienza infantile ha costruito il mondo e modo con le donne; lui mi dice: “ non ci avevo mai pensato, ma si.. forse se ho avuto tante donne ed ho trascurato mia mamma perché ero preso dal collezionare orgasmi è pure colpa di quelle parole… forse anche lei ha sbagliato con me, come io ho sbagliato con lei..”

Gli dico che non esistono buoni genitori, ma solo genitori che provano ad essere buoni e spesso l’ autoconsapevolezza può aiutare e che lo stesso discorso vale con i figli.

Marco si alza dalla poltrona su cui era disteso, mi guarda e mi dice: “ quindi anche se lei è morta ed io sono consapevole di aver sbagliato posso rimediare?”

Gli rispondo: “credo di si, magari può provare a scrivere delle lettere a sua mamma con le parole che non le ha detto e dedicarle del tempo così, quando viene qui può leggermele, se vuole, il tempo da me è un tempo che potrebbe dedicare a lei ed a sua mamma, magari togliendolo ai suoi orgasmi..”

Sorride, guarda l’orologio e vuole che gli fissi un altro appuntamento dove inizierà a leggermi le lettere.

Sorrido anch’io e gli do un bigliettino: “..continuo a cercare, continuo a lottare, ci sono dentro con tutto il cuore…”[4]


[1] ROSS K., Lezioni di vita. Ciò che la morte e il morire ci insognano sulla vita e sul vivere.2019

“….La morte non è la più grande perdita della vita. La più grande perdita è ciò che muore dentro di noi mentre stiamo vivendo….” NORMAN COUSINS

 

 

Marco (nome di fantasia) mi contatta perché dopo la perdita della madre non riesce ad elaborare il lutto e si sente spaesato.

Quando arriva da me mi racconta della sua infanzia, del suo legame con la mamma, del bisogno che aveva da lei.

Si interrompe e mi dice: “ ho tanti rimpianti.. perché negli ultimi anni sono stato cosi preso dal lavoro che la vedevo poco… e poi anche le donne, gli amici, insomma non la vedevo come un figlio dovrebbe vedere una mamma..”

Gli domando: “come un figlio dovrebbe vedere una mamma, secondo lei?”

Mi dice: “un buon figlio, almeno una volta a settimana… io la vedevo una volta ogni due mesi e anche al telefono non avevo voglia di parlarci più di tanto..”

Gli domando se sogna e mi dice: “negli ultimi 3 mesi sogno mia madre che mi rimprovera e le do ragione, lei aveva ragione ed io ho fatto schifo.. su tutto, forse anche la mia vita è uno schifo..” Mentre mi parla ho la sensazione che abbia bisogno di essere in qualche modo compreso e di sentirsi dire che ha ragione. Alla fine gli domando il perché la sua vita sia uno schifo. Lui mi risponde: “ perché alla fine lavoro, ho donne, ma non mi soddisfa.. è come se non avessi pace”

Mentre mi dice queste parole ripenso al monologo finale di un film che avevo visto tanti anni fa https://youtu.be/6WK6o1guFaI e penso che Marco non abbia la pace dell’anima.

Gli chiedo di parlarmi della perdita della madre, mi dice: “non c’ero, ha dell’incredibile perché stava bene da quello che mi raccontava al telefono e nonostante tutto è morta, senza dirmi nulla, senza avvisarmi prima, io non riesco a crederci….”

Parlo con Marco delle varie fasi di elaborazione del lutto, la psichiatra Kübler Ross elaborò nel 1969 la Teoria delle cinque fasi del lutto teorizzando il processo che porta ad elaborare la perdita:

  • Fase della negazione o del rifiuto: “non è possibile, non ci credo”: si tende a negare la perdita e rifiutare la realtà come meccanismo di difesa;
  • Fase della rabbia: “perché proprio a me? Cosa ho fatto per meritarmelo?” si può sperimentare ritiro sociale, solitudine e necessità di direzionare il dolore e/o la sofferenza esternamente o internamente, vivendo il lutto come un’ingiustizia;
  • Fase della contrattazione o del patteggiamento: “se supero questo momento, non farò più errori” si cerca di riacquisire l’esame di realtà e trovare delle strategie per affrontare il problema;
  • Fase della depressione: “non posso farcela, la mia vita così non va” si prende consapevolezza della perdita, pensando a cosa non si potrà più condividere;
  • Fase dell’accettazione del lutto: “ora bisogna andare avanti” si arriva alla totale elaborazione ed accettazione della perdita, si comprende di non essere gli unici ad avere quel dolore e che la morte è inevitabile.

Le fasi del lutto non sono obbligatoriamente presenti in modo sequenziale, bensì possono presentarsi con tempi e modalità diverse da persona a persona.[1]

Chiedo a Marco in quale di queste fasi si rispecchia e lui mi dice: “ovvio, la prima… ma lo sa anche lei..”

Gli domando il perché è cosi sicuro che io dovrei saperlo e lui mi risponde: “se sono qui da lei è perché sogno mia mamma, è perché non mi do pace e perché ho bisogno di trovare un minimo di pace..”

Gli chiedo di raccontarmi un ricordo bello e uno brutto che ha la mamma, lui mi dice che è troppo doloroso, ma se mi giro di spalle e se avessi un lettino potrebbe provarci.

Le sue parole mi fanno pensare alla tecnica analitica di non essere uno di fronte all’altro, visualizzo l’immagine del lettino e  mi vengono in mente le parole di Ogden  di quando propone l’uso del lettino ai suoi pazienti,  dicendo che questo specifico assetto consente sia al paziente che al terapeuta di dire cose che altrimenti avrebbero più difficoltà a dire e facilita il terapeuta ad ascoltare meglio ciò che vi viene detto dal paziente. [2]

A quel punto gli chiedo di schiacciare il pulsante sulla poltrona in modo da farla diventare un lettino e sposto la mia mettendomi dietro.

Mi sento incapace per quanto appassionata di psicoanalisi, ma lo considero un atto fatto per il paziente, un atto terapeutico.

Chiedo a Marco se è comodo e come si sente, forse ero io quella ad aver più timore, mi risponde: “sto benissimo e cosi mi sento meno fragile davanti a lei…”

Mi racconta prima del ricordo brutto con la mamma: “ avevo forse 8/9 anni e sono caduto, mia mamma mi ha riempito di insulti, mi ha detto che era colpa del mio essere maldestro e che non avrei mai trovato una fidanzata…in realtà ho cominciato a trovare fidanzate a 11 anni e gliele ho fatte vedere tutte..”

Leggo nelle parole di Marco una certa soddisfazione, come un senso di rivalsa.

Gli chiedo: “tutte le donne che mi diceva prima di aver avuto erano donne che amava in qualche modo?”

Mi dice secco: “la maggior parte le ho solo usate per dimostrare a me stesso che potevo avere tutto ciò che volevo”

Gli chiedo: “ a sé stesso o a sua mamma?”

Mi dice: “ora che mi ci fa pensare… forse a mia mamma e tra l’altro da quando è morta ne ho avuto ancora di più, cosi magari se lei mi vede può ritenersi soddisfatta..”

Penso a quanto spesso un scambio comunicativo tra genitore e figlio possa forgiare il figlio che si auto-costruisce aspettative genitoriali che, probabilmente, sono frutto di idee personali.

Secondo Winnicott la creatività consiste nel mantenere nel corso della vita, qualcosa che appartiene all’esperienza infantile: la capacità di creare il mondo..[3]

Dico a Marco se, secondo lui, quest’esperienza infantile ha costruito il mondo e modo con le donne; lui mi dice: “ non ci avevo mai pensato, ma si.. forse se ho avuto tante donne ed ho trascurato mia mamma perché ero preso dal collezionare orgasmi è pure colpa di quelle parole… forse anche lei ha sbagliato con me, come io ho sbagliato con lei..”

Gli dico che non esistono buoni genitori, ma solo genitori che provano ad essere buoni e spesso l’ autoconsapevolezza può aiutare e che lo stesso discorso vale con i figli.

Marco si alza dalla poltrona su cui era disteso, mi guarda e mi dice: “ quindi anche se lei è morta ed io sono consapevole di aver sbagliato posso rimediare?”

Gli rispondo: “credo di si, magari può provare a scrivere delle lettere a sua mamma con le parole che non le ha detto e dedicarle del tempo così, quando viene qui può leggermele, se vuole, il tempo da me è un tempo che potrebbe dedicare a lei ed a sua mamma, magari togliendolo ai suoi orgasmi..”

Sorride, guarda l’orologio e vuole che gli fissi un altro appuntamento dove inizierà a leggermi le lettere.

Sorrido anch’io e gli do un bigliettino: “..continuo a cercare, continuo a lottare, ci sono dentro con tutto il cuore…”[4]


[1] ROSS K., Lezioni di vita. Ciò che la morte e il morire ci insognano sulla vita e sul vivere.2019

[2] OGDEN P., Trauma And The Body, Settembre 2006

[3] WINNICOTT D.W., Il bambino, la famiglia e il mondo esterno. 2005

[4] V.W. VAN GOGH

 

 

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