Scelgo o non scelgo? tra il senso di colpa e la paura dell'imperfezione

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Teresa Colaiacovo - Scelgo o non scelgo? tra il senso di colpa e la paura dell'imperfezione

Mia piccola Amélie, lei non ha le ossa di vetro: lei può scontrarsi con la vita. Se lei si lascia scappare questa occasione, con il tempo sarà il suo cuore che diventerà secco e fragile come il mio scheletro. Perciò si lanci, accidenti a lei!(Dal film Il favoloso mondo di Amélie)

Antonello ha 56 anni, due matrimoni falliti e una convivenza che a suo die “sta vacillando, perché lei non mi da ciò che cerco”

Gli domanda cosa cerca e mi risponde in maniera impetuosa: “serenità, forse”

Mi racconta la sua storia, Antonello è stato un bambino prodigio, laureato in ingegneria con il massimo dei voti, ha rispettato sempre i voleri della famigli, tanto che i genitori l’hanno definito: il figlio perfetto.

Seguendo il marchio del familiare cucito su di lui ha ricercato donne che confermassero a se stesso di essere perfetto.

Mi dice: “ognuna delle mie ex mogli invece mi trovava difetti e io poi mi annoiavo, mi irrigidivo e non ho mai voluto fare figli… i figli devono nascere in contesti perfetti, come il mio. Erano loro quelle non perfette alla fine…”

Gli chiedo: “mi descrive cosa è per lei la perfezione?”

Mi dice: “un bicchiere in cristallo lucente con una forma bellissima..”

Gli dico: “ma anche quel bicchiere può rompersi, quindi è delicato..”

Mi dice: “e si la fragilità può essere un disastro..”

Gli chiedo: “lei si è mai sentito fragile?”

Mi dice: “beh quando mi trovano dei difetti che non esistono poi in realtà…”

Gli chiedo cosa pensa della frase: la fragilità del cristallo non è una debolezza ma una raffinatezza**[1]**

Cerco di trovare una connessione tra l’immagine che lui mi ha proposto e il concetto di fragilità che sembra una sua ferita.

Antonello mi dice: “si è ok, ma lo spieghi alla vita, sono degli squali e se sei fragile ti mangiano..”

Gli dico:” chi è uno squalo?”

Mi risponde: “beh a cominciare dal lavoro, ma anche la mia attuale compagna che per quanto non mi interessi più perché mi sono innamorato di un’altra non vuole lasciare casa e cerca di farmi pietà ed è questa la mia confusione cioè come faccio a mandarla via? E sono pronto ad iniziare un rapporto con una donna alfa come la mia collega che è affascinante, ricca, prestigiosa, insomma una meraviglia…”

Gli dico: “la sua attuale collega cosa le dice?”

Mi dice che non è fatta per fare l’amante e che ha bisogno non di briciole ed ha ragione

Gli chiedo come lo fa sentire questa situazione.

Antonello mi dice: “imperfetto chiaro e poi mi sento in colpa sia nei confronti della mia compagna  che elemosina in qualche modo questo rapporto che nei confronti di quella donna visto che non riesco ad offrirle niente di certo…”

Il senso di colpa (Schuldgefühl) è uno dei tratti caratterizzanti la nevrosi ossessiva. Si manifesta in forma di auto-rimproveri, vergogna e pensieri ossessivi, contro i quali il soggetto si oppone perché ritenuti inaccettabili.

Il senso di colpa è in parte inconscio. Il soggetto non è consapevole della reale natura dei suoi desideri (soprattutto quelli aggressivi). Il senso di colpa si caratterizza per le autoaccuse, l’autosvalutazione e l’autopunizione. “[…] Gli autorimproveri sono in realtà rimproveri rivolti a un oggetto d’amore, e da questo poi distolti e riversati sull’Io del malato”[2]. Si assiste ad una vera e propria separazione tra Io, accusato, e Super-Io, accusatore. Scissione che deriva da una relazione intersoggettiva attraverso un meccanismo di interiorizzazione (rimproveri che dall’oggetto d’amore si riversano sull’Io).

Il Super-Io, come istanza critica e punitiva, assurge alla funzione colpevolizzante: “il senso di colpa è la percezione che nell’Io corrisponde a questa critica”[3] del Super-Io.

Adesso si spiega meglio l’aspetto inconscio del senso di colpa. È il rapporto tra Super-Io e Io ad essere inconscio. È questo rapporto a produrre effetti di colpevolizzazione che non hanno accesso alla coscienza. “Si può individuare in molti delinquenti, specialmente quando si tratta di giovani, un potente senso di colpa che preesisteva all’atto criminoso, e che quindi di questo atto non è l’effetto bensì la causa: come se il poter collegare il senso di colpa inconscio a qualche cosa di reale e attuale fosse avvertito da costoro come un sollievo”[4].

Ad un certo punto Freud si rende conto che la concezione del senso di colpa come inconscio lasciava spazio a qualche fraintendimento. Ad un certo punto preferì il termine “bisogno di punizione”, che indicava una spinta che tendeva alla distruzione del soggetto con un accezione più radicale. Infatti il senso di colpa è riconducibile sempre alla stessa dinamica che vede coinvolti l’Io e il Super-Io (residuo del complesso edipico). È possibile ipotizzare che “una grande parte del senso di colpa debba normalmente restare inconscia, dal momento che la formazione della coscienza morale è collegata intimamente al complesso edipico, il quale appartiene all’inconscio”[5]

Gli domando qual è stata, a suo ricordo, la prima volta che si è sentito in colpa..

Antonello sembra sovrappensiero e mi dice: “quando mio padre ha visto che avevo preso 9 e non 10 al compito di matematica, avevo 8 anni… mi sono sentito imperfetto e quindi fragile, lui era un uomo perfetto, lavorava e si sacrificava per noi e io non sono stato in grado di dargli questa soddisfazione…”

 Il perfezionismo rappresenta un importante tratto della personalità che può diventare disfunzionale solo nel caso in cui la sua strutturazione diviene così rigida e pervasiva da guidare emozioni, pensiero e comportamento in modo predominante rispetto ad altre risorse individuali. 

Paul L. Hewitt rappresenta uno dei massimi esperti del campo ed ha proposto un approccio dinamico-relazionale che identifica il perfezionismo clinico come un costrutto multidimensionale. Le dimensioni attraverso cui si manifesta includono la tendenza ad autovalutarsi in modo critico e distaccato dalla realtà, uno stile dettato dalla pretesa della perfezione da parte di chi ci circonda e processi cognitivi focalizzati sulla credenza che l’altro si aspetta la perfezione da noi stessi. Nella pratica quotidiana ciò si associa a processi di natura relazionale che portano la persona a validare i propri aspetti perfezionistici proponendo agli altri un’immagine di sé contraddistinta da elevati standard, connessa alla mancata espressione dei propri aspetti di fragilità e dei fallimenti personali.

Il modello dinamico-relazionale chiama in causa il concetto di complesso di superiorità derivato dalla teoria psicoanalitica adleriana, che identifica nel perfezionismo clinico proprio il bisogno di nascondere il senso di inferiorità personale attraverso la tendenza a mascherare difetti ed errori per ridurre un’eccessiva ipersensibilità al giudizio esterno. [6]

Un secondo filone teorico cui tale modello si ispira trae le sue radici nella psicoanalisi di Sullivan, secondo il quale il perfezionismo rappresenta un tratto potenzialmente disfunzionale sia a livello individuale che relazionale. A tale scopo Hewitt identifica in questa nozione qualcosa che si differenzia da una visione ottimistica e da una sana organizzazione degli sforzi per il raggiungimento di determinati obiettivi, sottolineando come nel perfezionismo emergano elementi diversi quali la procrastinazione, la paura del fallimento e un’eccessiva focalizzazione sugli aspetti negativi di sé e degli eventi. 

Come evidenzia lo psicologo canadese, dunque, l’obiettivo del perfezionismo è “perfezionare sé stessi, e non le cose o le attività”, cosa che avviene secondo standard irraggiungibili a causa della loro rigidità e del bisogno di totale adesione a questi parametri per definire chi siamo. Non a caso tale costrutto compare spesso in ambito psicopatologico, ad esempio accompagnando disturbi del comportamento alimentare, dove emerge attraverso il desiderio di raggiungere un modello corporeo distante dal naturale equilibrio psicofisico o nel disturbo ossessivo compulsivo, spesso manifestandosi sotto forma di strategie di controllo.[7]

Questi sono alcuni, ma non certamente tutti, casi in cui la psicoterapia può rivelarsi una soluzione efficace. Anche se non raggiunge livelli di interesse clinico, un eccessivo perfezionismo può ostacolare il benessere individuale ponendo costantemente la persona di fronte a obiettivi estremamente complessi, per raggiungere i quali è chiamata a sacrificare una parte di sé o a compromettere le relazioni con gli altri.

È bene sottolineare che persone con elevati livelli di perfezionismo difficilmente si rivolgono ad un professionista e, quando lo fanno, spesso ricercano nella relazione una fonte di nutrimento per il proprio Sé, elemento che può rendere difficile costruire un’alleanza terapeutica. Il perfezionismo clinico è sorretto da un Sé grandioso che può ostacolare la relazione terapeutica attraverso l’adozione di un atteggiamento sprezzante e svalutante nei confronti del professionista, non di rado alternato da modalità richiedenti e controllanti. 

Chi possiede tale tratto può proiettare parti di sé poco tollerabili sull’altro, elemento che in psicoterapia rappresenta un’enorme fonte di informazioni circa il funzionamento individuale e relazionale del paziente. Ciò aiuta il terapeuta nella costruzione di un modello relazionale alternativo che concede alla persona l’accettazione dell’altro come diverso da sé nella sua interezza, promuovendo il progressivo smantellamento delle difese e l’accettazione delle pulsioni fortemente limitate dalle strategie di controllo tipicamente adottate.

Chiedo ad Antonello se in nome del perfezionismo ha detto più si o no a se stesso?

E mi risponde: “ovvio, un sacco di no… ma come faccio ora?”

Gli chiedo cosa prova al di là dei sensi di colpa e mi dice: “per la mia compagna niente, nessun desiderio sessuale nemmeno, per l’Altra invece un sacco di roba, ma allo stesso tempo ho paura di sbagliare e rovinarmi..anche perché non ho mai sbagliato.. lei dottoressa mi aiuterà?”

Lo saluto dandogli un bigliettino con una frase: “Quanti anni ho, io? A chi importa! Ho gli anni che servono per abbandonare la paura e fare ciò che voglio e sento…”**[8]**


[1] HIRSCH E.

[2]  S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti 1915-1917, OSF, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, vol. 8, p. 513

[3] S. Freud, L’Io e l’Es e altri scritti 1917-1923, Torino, OSF, Bollati Boringhieri, 2000, vol. 9, p. 514

[4]  op. cit., p. 514

[5] op. cit. , p. 513

[6] Paul L. Hewitt: Perfectionism. A Dynamic-Relational Approach to Conceptualization, Assessment and Treatment – Report dal Workshop di Bergamo, 25 Maggio

[7] SULLIVAN B., THOMPSON H.,  The Plateau Effect

[8] SARAMAGO J.

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