IL SENTIRSI INADEGUATA, IL SOGNO E UN TEMPO IN RITARDO, MA GIA' IN PARTENZA

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Teresa Colaiacovo - IL SENTIRSI INADEGUATA, IL SOGNO E UN TEMPO IN RITARDO, MA GIA' IN PARTENZA

Susanna (nome di fantasia) ha 43 anni ed inizia un percorso di supporto psicologico perché dice (riporto in corsivo le sue parole): “mi sento sbagliata, tutto ciò che faccio non mi porta a niente di cocreto e mi ritrovo alla mia età senza un figlio, senza una famiglia e senza una stabilità economica… sono ancora in affitto in posti schifosi e se non ci fossero i miei dovrei andare alla Caritas.. sono stati loro stessi a dirmi di farmi aiutare…”

Approfondiamo il concetto del “sentirsi sbagliata” e Susanna, commossa mi racconta un episodio, che mi appare saliente della sua infanzia: “quando ero bambina, avevo 11 ani ed era il mio compleanno, in famiglia avevamo organizzato una festa tutti in famiglia e c’erano i miei cugini… eravamo 30 persone in tutto. Ad un certo punto dovevo spegnere e candeline ed avevo paura di fare brutta figura, mia mamma mi diceva sempre che ero imbranata. Al momento di spegnere le candeline mia mamma mi dice: Susanna non le spegnere tu perché sicuramente sbagli, le facciamo spegnere a tua cugina…lo dice davanti a tutti e tutti ridono… beh spesso risogno quella scena , nel sogno è anche peggio, e mi rendo conto che non sono mai stata in grado di fare niente…”

 Il sogno ha quindi anche la funzione, originariamente descritta da Freud, di riportare alla luce materiale rimosso, operazione che potremo definire di de-rimozione. A questo riguardo è interessante l’esperienza di rimozione volontaria che, studiata con bio-immagini, permette di osservare un’ attivazione delle aree frontali dorsolaterali ed una deattivazione dell’ippocampo bilateralmente. Poiché questo fenomeno è esattamente l’opposto di quanto avviene nel sogno (in cui si osserva un’ attivazione dell’ippocampo e una deattivazione della corteccia frontale dorso laterale), l’esperienza di rimozione volontaria confermerebbe a livello neurofisiologico la funzione de-rimotiva del sogno. I dati neuroscientifici sull’attività onirica del cervello offrono inoltre un contributo al pensiero psicoanalitico contemporaneo e in particolare alla riflessione sull’idea che ci sia un continuum tra le fantasie (inconsce) della veglia e le fantasie (oniriche) del sogno. Questa idea, che dobbiamo a Bion e a Meltzer è affascinante e sottolinea il ruolo insostituibile delle fantasie inconsce nella vita mentale della veglia e del sogno. Esistono tuttavia delle differenze neurofisiologiche processuali tra questi due stati della mente che la ricerca neuroscientifica sta ora mettendo in evidenza. Ad esempio, l’elaborazione delle informazioni che il cervello compie dipende dal suo stato funzionale, inteso in senso globale, in quel momento specifico. E’ quest’ultimo che controlla le strategie processuali che condizionano i contenuti cognitivo-emozionali della memoria, le procedure di immagazzinamento e la relazione di ciò che il soggetto può ricordare o dimenticare con il sogno.**[1]**

Ripensando al sogno di Susanna , al dire della madre, mi vengono in mente le parole di Bollas che denomina “conosciuto non pensato”, cioè “quelle procedure non pensate, ma divenute parte del modo di essere e di mettersi in rapporto, scaturite dall’incontro del vero Sé del bambino e l’idioma di cure della madre.[2]

Susanna continua dicendomi: “ in qualche modo la mia vita è sempre stata una brutta figura, io non sono stata mai abbastanza per nessuno a cominciare dai miei genitori..”

In psicologia esiste una definizione specifica per definire la preoccupazione di non sentirsi all’altezza  si tratta dell’atelofobia.

L’etimologia di “atelofobia” deriva dal greco atelophobia, una parola composta da atelés (che significa imperfetto, incompleto) e phóbos (ovvero paura, fobia) e rappresenta la paura dell’imperfezione

Si tratta di un disturbo ansioso  definibile come il persistente ed eccessivo timore di non essere abbastanza, di fare qualcosa di sbagliato ed irrimediabile, di essere imperfetto su qualsiasi aspetto della propria vita. La persona atelofobica è sempre preoccupata dal fatto che, qualsiasi cosa faccia:

  • non sia giusta;
  • presenti degli errori con conseguenze disastrose;
  • non sia perfetta. 

L’atelofobia si manifesta in tutti gli ambiti della vita della persona, rendendo anche i compiti quotidiani estremamente difficili. 

Un atelofobico, di solito, si pone obiettivi irrealistici che poi evita di intraprendere o di portare a termine. Parla ossessivamente degli errori che ha commesso in passato e di quelli che potrebbero commettere in futuro, facendo emergere una certa mania del controllo che lo paralizza a tal punto da “immobilizzarlo” e provocare, in certi casi, anche attacchi di panico

Le frasi tipiche di chi soffre di atelofobia possono essere:

  • “non posso permettermi di sbagliare”
  • “ci saranno delle conseguenze gravissime per la mia incapacità”
  • “non ho speranze di arrivare dove voglio, non so fare niente
  • “qualcosa ostacolerà sicuramente il mio cammino, indipendentemente dalla mia volontà”. [3]

Chiedo a Susanna con quale colore dipingerebbe questo momento della sua vita e lei mi dice di getto: “Nero, anche se ci sono stati dei periodi bianchi..”

Dico a Susanna: “Proviamo a pensare alla vita come a una tavolozza piena di colori: c’è il rosso della passione o della rabbia, il viola della vergogna, il verde della serenità, il blu della tristezza e così via. Ci sono tutte le emozioni, quelle che ci rendono felici, quelle che ci fanno soffrire; è così in ogni ambito della vita, anche sul lavoro. Al contrario, il perfezionismo prevede solo bianco e nero, giusto o sbagliato, vittoria o sconfitta… credo che un buon esercizio per lei potrebbe essere quello di usare l’immaginazione  e associare un colore alle emozioni che proviamo. Se ad esempio le viene un attimo di sconforto, invece di soffermarci sui motivi, chiuda gli occhi e pensi a qualcosa di blu. Lasci  che il blu della tristezza la  pervada, senza opporsi: in breve tempo, si accorgerà che quel sentimento sta già tramontando per far posto a uno stato d’animo diverso…”

Lei mi dice: “solo questo?”

Sorrido e le dico:” se vuole può iniziare a fare quella che è la linea della vita, ricordi belli e brutti da quando ne ha memoria ad oggi e associare a questi un colore…”

Susanna mi dice: “beh, già questo mi sembra un buon lavoro, più concreto…”

Sorrido di nuovo e lei abbassa lo sguardo e mi dice: “mi scusi, sono un po’ così..”

Le rispondo: “ ognuno è un po’ così a modo suo”… prima di salutarla le lascio un bigliettino con una poesia:

“ Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni  giorno gli stessi percorsi,  chi non cambia la marcia,  chi non rischia e cambia colore dei vestiti,  chi non parla a chi non conosce.

  Muore lentamente chi evita una passione,  chi preferisce il nero su bianco  e i puntini sulle “i” piuttosto che un insieme di emozioni,  proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che  fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore  davanti all’errore e ai sentimenti.

  Lentamente muore chi non capovolge il tavolo,  chi e’ infelice sul lavoro,  chi non rischia la certezza per l’incertezza per inseguire un sogno,  chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai  consigli sensati.

  Lentamente muore chi non viaggia,  chi non legge,  chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso.

  Muore lentamente chi distrugge l’amor proprio, chi non si lascia  aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o  della pioggia incessante.

  Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,  chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non  risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.

  Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere  vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto  di respirare.

  Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di una  splendida felicita’.**[4]**


[1] Il lavoro del sogno., www.spi.it

[2] BOLLAS C., Liberamente associati. Incontri psicoanalitici., 1999

[3] Le cause che possono convergere nello sviluppo di questo disturbo sono: 

  • la predisposizione genetica;
  • l’aver subito un evento traumatico (generalmente i primi segnali di tale disturbo si mostrano nell’infanzia o adolescenza). 

Gli atelofobici possono aver fatto esperienze con genitori o insegnanti molto severi e richiedenti, con aspettative elevate e la pretesa della perfezione

Questo potrebbe spiegare la paura del fallimento, il pensiero ricorrente di non essere abbastanza bravi e meritevoli, il valore “vitale” che la perfezione assume per questi soggetti e la bassa autostima in amore.  Infatti questo disagio incide anche nelle relazioni affettive: l’atelofobia nell’uomo e nella donna fa emergere personalità ipersensibili alle critiche, molto attente alle opinioni degli altri e inclini al giudizio. 

 

[4] PABLO NERUDA

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