CHI SONO IO? l'impasse di Carlotta tra autolesionismo e trauma familiare

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Teresa Colaiacovo - CHI SONO IO? l'impasse di Carlotta tra autolesionismo e trauma familiare

”..Il passato è costruito a partire dal presente, il quale seleziona ciò che, ai suoi occhi, è storico, vale a dire precisamente ciò che, nel passato, si sviluppa per produrre il presente…“ E. MORIN

 

Carlotta ha 21 anni, vive lontana dal suo paese d’origine per motivi di studio.

sta vivendo un momento difficile perchè non riesce a fare gli esami universitari e mi dice: “ho paura di essere bocciata..”

dopo aver ripercorso questi mesi di stasi nel percorso universitario mi dice piangendo: “da qualche tempo mi faccio del male, tagliandomi..”

“l’autolesionismo è un comportamento ripetitivo, solitamente non letale per severità né intento, diretto volontariamente a ledere parti del proprio corpo, come avviene in attività quali tagliarsi o bruciarsi” (A. FAVAZZA 1989, p. 137). Dunque, non possono essere considerate autolesionistiche in senso stretto le condotte che determinano solo indirettamente danni fisici (abbuffate, anoressia, assunzione di sostanze, etc.). Mentre possono essere considerate autolesionistiche le condotte che portano comunque a un ferimento volontario, anche se non inquadrabile all’interno di un chiaro contesto di patologia.

DIFFUSIONE E POSSIBILI CAUSE DELL’AUTOLESIONISMO

Oggi l’autolesionismo è un fenomeno talmente diffuso nei paesi industriali avanzati da costituire una vera e propria emergenza sociale, che riguarda tutta la popolazione, non soltanto quella psichiatrica e, in special modo,  la fascia di età giovanile. Giusto per citare qualche dato: circa il 4% di adulti privi di disturbi clinici riporta una storia di autolesionismo (Klonsky, Oltmanns & Turkheimer, 2003); negli Stati Uniti e in Canada il 14-15% degli adolescenti riferisce di aver compiuto almeno un atto autolesivo nell’ultimo anno (Laye-Gindhu & Schonert-Reichl, 2005); in Svezia gli adolescenti di 14 anni che riferiscono almeno un episodio di autolesionismo oscillano tra il 36 e il 40% (Bjärehed, Lundh, 2008); tra i pazienti psichiatrici adulti, gesti autolesivi sono presenti nel 20% dei casi (Briere & Gil, 1998) e, tra i pazienti psichiatrici adolescenti, le cifre salgono fino al 40-80% (Nock & Prinstein, 2004). Una situazione decisamente drammatica, dunque. Quasi un’epidemia.

Perché questa diffusione trasversale dell’autolesionismo nelle società odierne?

E, soprattutto, cosa spinge le persone a ferirsi (e nei modi più disparati)?

Su quali motivi sottendono queste condotte il dibattito è aperto ormai da anni. Friedman et al. (1972), ad esempio, pensano che l’autolesionismo serve a tenere sotto controllo pulsioni sessuali o di morte; Simpson e Porter (1981) ritengono che esso sia utile nel definire i confini tra il Sé e l’altro; Suyemoto (1998) ipotizza che tale comportamento protegga gli altri dalla propria aggressività e rabbia.

In particolare Lemma (2010) sostiene che l’autolesionismo assolve una serie di compiti inconsci, tra cui:

-negare la separazione o la perdita (con la fantasia inconscia di essere fusi con l’oggetto, rifiutando di elaborare il lutto per il corpo dell’oggetto perduto)

tentare la separazione (con la fantasia inconscia di sovrascrivere, tagliare via in modo violento o strappare l’altro, sentito risiedere dentro il proprio corpo)

coprire un corpo vissuto con vergogna (con la fantasia inconscia di distrarre, e quindi controllare, lo sguardo dell’altro)

porre rimedio a un senso interno di frammentazione (con fantasia inconscia di identificazione con l’immagine che l’altro vede e che ristabilirà un senso di coesione interna)

attaccare l’oggetto (con la fantasia inconscia di infliggere un dolore, e quindi punire l’oggetto, esponendolo al luogo del crimine).

Per muoversi nel contesto di un insieme di comportamenti altamente indifferenziati ed opachi ci è sembrato utile proporre una serie di  “organizzatori di senso” (Rossi Monti & D’Agostino, 2009) non certamente esaustivi né mutuamente esclusivi, ma che possano funzionare un po’ come boe durante la navigazione clinica:

-il primo organizzatore lo abbiamo chiamato  “concretizzare”, là dove il gesto autolesivo viene usato come modo per trasformare uno stato psichico in uno fisico, per controllare nel corpo sentimenti intollerabili, come un angoscioso vuoto interiore;

-il secondo organizzatore è “punire-estirpare-purificare”, dove ferirsi è un mezzo per punire/estirpare la parte cattiva di sé (il sé alieno di cui parla Fonagy) al fine di disintossicarsi/purificarsi e attaccare pensieri, sentimenti, ricordi, o anche per ripetere inconsciamente una sequenza emotiva che rimanda ad una storia di abuso infantile;

-il terzo è “regolare la disforia”, dove l’atto di auto-ferimento aiuta a controllare sentimenti di tensione angosciosa, quale può essere ad esempio lo stato disforico cronico che fa da sfondo all’esperienza borderline (un misto di tensione, irritazione, sordo malumore, confusione, rabbia), ma anche ad interrompere il ciclo di depersonalizzazione/derealizzazione, ricercando esperienze vive e stimolanti nel dolore;

-il quarto è “comunicare senza parole”, dove il gesto autolesivo funge da linguaggio per trasmettere qualcosa che a parole non si riesce a dire, o anche per controllare i comportamenti e le emozioni dell’altro, o pure per suscitare nell’altro risposte di accudimento (in questo contesto si parla spesso in modo inesatto di “manipolazione”, una modalità di pensiero e azione che richiede funzioni mentali complesse e sofisticate, in genere sostanzialmente compromesse nel disturbo borderline grave);

-il quinto è “costruire una memoria di sé”, dove ferirsi diventa un modo per fissare una memoria di se stessi, incidendo sul proprio corpo marchi che segnano sulla pelle momenti, vicende ed emozioni, corrispondenti a significativi punti di passaggio;

-il sesto ed ultimo organizzatore è “volgere in attivo/cambiare pelle”, dove l’auto-ferimento agisce come uno strumento per trasformare in attive esperienze che vengono vissute passivamente, subite o imposte, un modo per ribaltare un senso di impotenza di per se stesso traumatico in un “trauma” auto-provocato, del quale ci si può sentire autori.

Chiedo a Carlotta della sua famiglia e mi racconta di un padre violento con lei e con la madre, di una stretta coalizione tra le due donne e mi dice ancora: “ non sono mai riuscita a difenderla, ho visto tanto di quel sangue ogni volta che la picchiava..”

le chiedo chi difendesse lei e Carlotta sospira dicendo con un tono di voce basso, quasi impercettibile, : “nessuno..”

riguardando al vissuto di Carlotta e flirtando con le ipotesi penso che il comportamento autolesivo possa essere dettato in primis dal voler concretizzare sul corpo uno stato d'animo angosciante che non riesce più a contenere e dall’altro un modo per agire in maniera violenta attivamente condotte che prima le erano imposte.

chiedo a Carlotta ” se domani accadesse un miracolo da cosa te ne accorgeresti, come ti vestiresti, con chi parleresti e cosa diresti, cosa ti direbbero le persone che incontri e tu cosa diresti loro…quali sono i piccoli dettagli che ti farebbero capire che c’è stato un miracolo nella tua vita..”

laconicamente mi dice: “ mia mamma non mi chiamerebbe per dirmi che papà l’ha picchiata, non piangerebbe al telefono e magari la incontrerei sotto casa mia qui dove studio…. e io sarei vestita di rosso, senza associarlo al sangue e starei andando a fare un esame e lei mi accompagnerebbe dicendomi che sono brava e che ho coraggio..”

in queste parole vedo una ragazza adultizzata precocemente che non è stata vista come figlia nemmeno dalla madre, le poche risorse emotive della donna l’hanno portata a sovrapporsi alla figlia in un quadro invischiato, in cui l’unico “adulto” sembra essere il padre che impone con la violenza il suo essere genitore e non un pari.

il percorso con Carlotta sarà orientato sul presente, affinché attraverso gli esami possa ri-acquistare fiducia in se stessa, magari attraverso l’ausilio di esercizi di psicoterapia cognitivo comportamentale proveremo a ristrutturare i suoi pensieri di auto-sabotaggio, mentre attraverso una lettura in chiave sistemica ri-leggeremo la sua storia familiare per comprendere, che non significa accettare, l’origine della violenza paterna e la stasi materna nel rapporto…

la saluto dandole un bigliettino con una frase: “e venne il giorno in cui il rischio di rimanere chiuso in un bocciolo divenne più doloroso del rischio di sbocciare…” Anais Nin

BIBLIOGRAFIA

Favazza, A. R. (1996). Bodies under siege: Self-mutilation and body modification in culture and psychiatry. Baltimore: The Johns Hopkins University Press.

Friedman, M., et al. (1972). Attempted suicide and self-mutilation in adolescence: Some observations from a psychoanalytic research project. The International Journal of Psychoanalysis, 53, 2: 179-83.

Klonsky, E. D., & Muehlenkamp, J. J. (2007). Self-injury: A research review for the practitioner. Journal of Clinical Psychology, 63(11), 1045-1056.

Klonsky, E. D., Oltmanns, T. F., & Turkheimer, E. (2003). Deliberate self-harm in a nonclinical population: Prevalence and psychological correlates. American Journal of Psychiatry, 160, 1501–1508.

Laye-Gindhu, A., & Schonert-Reichl, K. A. (2005). Nonsuicidal self-harm among community adolescents: Understanding the “whats” and “whys” of self-harm. Journal of Youth and Adolescence, 34, 447– 457.

Lemma, A. (2010). Sotto la pelle. Psicoanalisi delle modificazioni corporee. Milano: Raffaello Cortina, 2011.

Nock, M. K., & Prinstein, M. J. (2004). A functional approach to the assessment of self-mutilative behavior. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 72, 885–890.

Rossi Monti, M. & D’Agostino, A. (2009). L’autolesionismo. Roma: Carocci.

Simpson, C. A., & Porter, G. L. (1981). Self-mutilation in children and adolescents. Bulletin of the Menninger Clinic, 45, 5: 428-438.

Suyemoto, K. L. (1998). The functions of self-mutilation. Clinical Psychology Review, 18, 5: 531-554.

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