PERCHE' HO PAURA DI CRESCERE E AMARE: LE ORIGINI DELLA CONTRODIPEDENZA

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Teresa Colaiacovo - PERCHE' HO PAURA DI CRESCERE E  AMARE: LE ORIGINI DELLA CONTRODIPEDENZA

“…Lottando contro il destino ci si avvolge solo più profondamente nelle sue spire. Come un animale preso in una rete, più uno lotta più si lega strettamente. Questo significa che siamo condannati? Siamo condannati solo se lottiamo contro noi stessi. La spinta principale data dalla terapia è l’aiuto a smettere di lottare contro se stessi…”**[1]**

Alfredo (nome di fantasia) inizia la seduta dicendomi (riporto in corsivo le sue parole): “sono qui perché tutti mi dicono che ho bisogno di uno psicologo, ma secondo me non c’è motivo… da lei vengono i pazzi e io non lo sono.. perciò che può fare lei per me che non posso fare io?”

Alfredo ha 48 anni, è ingegnere e vive da solo, figlio di genitori separati, adora il suo lavoro e non ha desiderio di una relazione stabile.

Io gli domando: “ di solito iniziare un percorso significa fare un viaggio dentro di sé, vedersi attraverso gli occhi di un altro, può essere utile a conoscere aspetti dell’estraneo che ci abita… in ogni caso chi sono le persone che le dicono che ha bisogno di uno psicologo?”

“Beh… mia mamma, mio padre e qualche amico stretto, per non parlare delle donne che frequento, quando le lascio mi dicono che sono un pazzo… vede io mi innamoro, le amo tutte per qualche giorno, ma poi mi sento soffocare e scappo…”

Mi parla della sua famiglia dicendomi che ha vissuto la separazione dei genitori malissimo, aveva solo 7 anni e non si aspettava che i suoi si separassero, “mi hanno tradito…ma si sa che gli adulti tradiscono sempre e che delle donne non bisogna fidarsi, mia mamma che era per me tipo una Santa dopo mio padre ha iniziato ad avere storie su storie con uomini del cavolo e pretendeva anche che io li conoscessi..”

Spesso sentiamo parlare di dipendenza affettiva[2], in questo caso si potrebbe ipotizzare, invece, una controdipendenza intesa come paura dei legami profondi.

Pur avendo una facilità estrema nell’interagire con gli altri, la persona con una controdipenza tende a fuggire dalle relazioni più profonde. Si sente in gabbia e crede di non aver bisogno dell’aiuto degli altri. Perché si mettono in moto questi comportamenti? Alla base della controdipendenza c’è la paura di soffrire. Per questo, la conseguenza è quella di fuggire dalle relazioni non superficiali perché vengono viste come fonte di sofferenza.

Che lo vogliamo o no, le relazioni sociali comportano alcuni rischi, come l’abbandono o il conflitto. La controdipendenza viene utilizzata come un’arma per difendersi da questi pericoli: piuttosto che correre il rischio di soffrire è meglio evitare le relazioni stesse. Per questo, è preferibile evitare del tutto questi rischi. La conseguenza principale della controdipendenza, dunque, è la fuga, scomparire all’improvviso dalla vita degli altri senza offrire una spiegazione ragionevole. Agli occhi degli altri, infatti, queste persone risultano incomprensibili, sembrano sempre occupati, appaiono spesso superiori e con la tendenza a disprezzare. I controdipendenti sono sempre impegnati a raggiungere i propri obiettivi e vedono con una certa altezzosità e come una perdita di tempo le relazioni profonde, indipendentemente che si tratti di un partner, dei familiari o degli amici.

Cosa si nasconde dietro la controdipendenza?

Come abbiamo già detto precedentemente la controdipendenza nasce essenzialmente dalla paura dei legami affettivi. Solitamente, questo timore è causato dalle esperienze passate, magari da un abbandono o da un trauma accaduto durante l’infanzia o da relazioni di coppia terminate male. La paura di tornare a soffrire porta queste persone a prendere le distanze da qualsiasi rapporto che possa implicare un legame profondo.

Tuttavia, la questione principale è che la maggior parte delle persone che soffrono di controdipendenza non credono di avere un problema. La loro decisione di essere diffidenti nei confronti degli altri, le fa sentire potenti e superiori rispetto alle altre persone. L’idea che gli altri si avvicinino, infatti, le fa sentire di non avere il controllo sulla situazione. Dietro questa idea, però, si nasconde spesso una grande solitudine e insicurezza che se non viene affrontata seriamente rischia di trasformarsi in una grande infelicità.

Chiedo, perciò ad Alfredo, come si è sentito da bambino durante la separazione dei genitori e cosa dicevano i genitori per rassicurarlo per esempio.

Mi dice: “gliel’ho detto, mi sono sentito tradito, solo e loro mi dicevano che tra adulti è normale che accadano certe cose, io non volevo crescere… se diventare adulti significa essere come loro, meglio rimanere dei bambini…”

la paura di crescere può manifestarsi in due modi: la prima chiamata la sindrome di piter pan e la seconda gerontofobia.

La sindrome di piter pan è caratterizzata da una paura inconscia di diventare adulti. Si tratta di una fobia che può portare all’isolamento sociale e alla difficoltà di relazionarsi con gli altri.[3]

La gerontofobia è invece una paura irrazionale e spesso incontrollabile degli anziani. Questa fobia può portare all’evitamento delle situazioni in cui si è a contatto con persone anziane o alla difficoltà di relazionarsi con loro.

Per quanto riguarda il caso specifico è utile chiedersi le cause che hanno portato Alfredo ad avere paura di crescere.

Le persone con questo disturbo hanno spesso difficoltà a relazionarsi con gli altri, a lavorare e a prendersi cura di se stesse. Essa può essere causata da diversi fattori, tra cui infanzia viziata, abusi, nostalgia dell’infanzia, indigenza economica e mancanza di competenze per la vita adulta.

Le persone con sindrome di Peter Pan spesso hanno difficoltà a impegnarsi in relazioni durature e stabili. Possono essere incapaci di mantenere un lavoro a lungo termine o di prendersi cura di se stessi. Queste persone possono anche avere problemi di salute mentale, come depressione, ansia e disturbi del sonno.

Chiedo ad Alfredo di raccontarmi qualcosa di bello, magari avvenuto prima della separazione tra i suoi genitori.. mi dice: “eravamo in Trentino e i miei genitori ordinavano tanti bicchieri di vino, si baciavano e allo stesso tempo mi accarezzavano i capelli, erano allegri e felici, e poi mi hanno detto: quando sarai adulto anche tu devi trovare una persona con la quale puoi divertirti così…ma io questa persona non l’ho mai trovata e non la voglio trovare…“ “E poi sa dottoressa, mia mamma quando aveva tutti quegli uomini mi costringeva a mantenere il segreto con mio padre e io pure mi sentivo certe volte un traditore…”

In questo caso si può parlare di segreti interni: quando il figlio condivide un segreto con il genitore, instaurando, così, un conflitto di lealtà con l’altro.[4]

È il dramma descritto da Miller nell’opera “il commesso viaggiatore” in cui il figlio scopre le relazioni extraconiugali del padre, non lo rivela alla madre e sprofonda in una forte tristezza che lo conduce ad una vita fallimentare.

Chiedo ad Alfredo se c’è stata una figura da cui non si è sentito tradito, una figura che in qualche modo si è presa cura di lui o lo ha illuminato..

Mi dice, con la voce strozzata:” … beh, mia nonna materna Anna.. lei non sopportava mia mamma, soprattutto quando dopo la separazione, ha iniziato a frequentare quella gentaglia…lei mi faceva la torta di mele ogni volta che ero triste e mi diceva che ero un bambino grande e che anche se avevo paura poi tutto sarebbe passato…ed invece alla fine niente è passato…”

Gli dico: “cosa direbbe oggi sua nonna dell’uomo che è diventato?”

“beh credo mi direbbe che sono un uomo in gamba e che esistono donne come lei, se magari riuscissi a non avere paura..”

Ad un certo punto Alfredo mi dice: “quante cose le ho detto ed è passata anche l’ora, e lei cosa mi dice, invece, sulla base del mio racconto, sono pazzo o no?”

La domanda di Alfredo consta di un delicato processo di ri-significazione che si conclude con la restituzione, da parte dello psicologo al cliente, di una nuova e diversa lettura della situazione interpersonale di questo ultimo.

Va da sè che i problemi da affrontare nei colloqui iniziali restano comunque sostanzialmente quelli indicati da Freud :1) giungere ad una indicazione terapeutica corretta come nella formulazione interrogativa di G. Paul (1960): “Quale trattamento, condotto da chi, è più efficace per questa persona, con questo particolare problema, in questo particolare momento della sua vita?”.2) permettere ad un paziente di rendersi conto di che cosa sia un’analisi o il trattamento che viene proposto dal terapeuta. Anche se oggi è più difficile che una persona si rivolga ad uno psicoanalista o psicoterapeuta senza sapere niente di psicoanalisi, tutti noi sappiamo bene quanto le spiegazioni intellettuali servano a poco e comunque non arrivino a far sentire l’essenza dell’esperienza terapeutica.[5]

sorrido ad Alfredo e dico: “scongiurato il pericolo che lei sia pazzo, ciò che mi ha raccontato oggi mi porta a riflettere sul suo rapporto con le figure femminili, su quanto per lei sia complesso affidarsi e fidarsi, nonostante la presenza salvifica di sua nonna che le ha mostrato un altro volto…”

“Quando mi ha detto che preferiva rimanere un bambino piuttosto che crescere ed essere adulto, come i suoi genitori, ho pensato al fatto che lei è adulto per ciò che concerne il lavoro, ma probabilmente di diventare adulto in coppia. Mi è parso di intravedere una parte di lei che ha bisogno di una nuova rilettura della trama della sua vita, degli episodi che le sono accaduti e di quelli che lei ha lasciato accadere, anche perché credo che ad un certo punto dentro di lei sa che non si deve rimanere vittime della propria autobiografia. “

Alfredo mi guarda e compiaciuto mi dice: “ci possiamo provare…magari vedo cose che non ho visto… oggi mi ha ricordato nonna e questo mi piace…”

Lascio ad Alfredo un post-it con una frase: “ Spingi forte il carro delle macerie che ti porti dietro e non lamentarti. Immaginati come una grande casa, puoi accogliere tutta la luce del giorno e tutta la notte, ti può essere caro ogni tanto tutto quello che accade..”[6]


[1] A. LOWEN, Paura di vivere, 1980

[2] Da un punto di vista psicanalitico, sia per gli studi che riguardano il normale sviluppo sia nel caso delle evoluzioni delle sindromi derivanti dalla mancanza o dal cattivo rapporto originario di DIPENDENZA AFFETTIVA  si può dimostrare che la tale dipendenza  è un bisogno naturale dell’uomo, ed è un processo fondamentale sul quale, attraverso le fasi  di identificazione con l’oggetto amato, si struttura lo sviluppo emotivo e psichico del bambino.

[3] Molti adulti non sono in grado di assumersi le responsabilità che la loro età comporta. Questo è noto come sindrome di Peter Pan. La sindrome di Peter Pan è un termine psicologico che descrive una persona che non vuole crescere e assumere le responsabilità della vita adulta. Queste persone tendono a rimanere "immaturi" e infantili per tutta la vita.

[4] SELVINI M., Segreti familiari

[5] FREUD S.: Nuovi consigli sulla tecnica di psicoanalisi (1913-14) Vol.VII Boringhieri

[6] ARMINIO F.

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