ABSTRACT
Definizione e disamina del Binge EATING DISORDER attraverso l’analisi di un caso clinico.
La prima parte è incentrata su come l’ottica psicoanalitica guarda ai disturbi alimentari, la seconda parte vede protagonista la famiglia.
Attraverso l’ottica sistemico relazionale si guarda a come, spesso, il rapporto tra il soggetto con un disturbo alimentare e la famiglia sia causa ed effetto di una comunicazione distorta che tende a preservare il sintomo.
“Quando il tuo sé sano è abbastanza forte da affrontare tutto ciò che la vita ti riserva, il tuo sé con il disturbo alimentare non sarà più utile o necessario.” – Carolyn Costin
Corinne ha 18 anni, sta terminando il liceo, inizia un percorso psicologico con me perché soffre di binge Eating disorder BED[1].
Il Binge Eating Disorder (BED) sembra avere origine nel periodo dell’adolescenza, in una situazione di normopeso, spesso a seguito di una significativa perdita di peso dovuta ad una dieta autogestita o scorretta.
Questi pazienti manifestano difficoltà in svariati ambiti della loro vita:
-disagio sociale e lavorativo esteso alla maggior parte dei rapporti interpersonali
-distorsione nella visione del proprio corpo che alimenta senso di insicurezza e inadeguatezza
-pressione e stress dovuti alla grande quantità di tempo trascorso sotto regime dietetico
-in alcuni casi abuso di alcool o droghe e storie di abusi infantili o scarsa presenza affettiva e sostegno da parte delle figure di accudimento
-difficoltà a gestire gli stati d’animo o a esprimere/manifestare le proprie emozioni (compresa la rabbia)
-senso di impotenza legato all’incapacità di controllare il proprio comportamento alimentare e il conseguente aumento di peso
Il 50% dei pazienti BED soffre di depressione maggiore, disturbo di panico e alcuni disturbi di personalità. Il sintomo dell’abbuffata infatti andrebbe a compensare una sensazione pervasiva di sconforto e solitudine presente nel momento della crisi.
Un elevato sovrappeso può contribuire al mantenimento e all’accentuazione del sintomo compulsivo, in quanto restituisce al paziente stesso una senso di fallimento, colpa e vergogna che autoperpetua la condotta alimentare incontrollata.
Alcune teorie sostengono che la capacità di alcuni cibi di gratificare la persona grazie ai processi ormonali antidepressivi conseguenti, alimenterebbe la sintomatologia del paziente BED che riuscirebbe, tramite le abbuffate di alcuni cibi nello specifico, a contrastare, seppure momentaneamente, uno stato d’animo depressivo insopportabile.
Corinne, nei primi mesi sembra restia a parlare dei suoi rapporti familiari, dei suoi stati d’animo con gli altri…sembra sminuire ciò che sente per loro, considerandoli esterni al suo disturbo.
Mi dice in varie sedute che lei si “abbuffa” perché deve riempire un vuoto e perché il cibo stabilizza le sue emozioni.
1.Relazione con il cibo. Relazione con la madre
Il cibo del feto, nella vita intra-uterina, è in un certo senso la madre stessa in quanto sono i suoi nutrienti che la placenta veicola, tramite il cordone ombelicale, al nascituro.
Alla nascita la cesura del cordone ombelicale inaugura l’alimentazione e l’allattamento del neonato, il quale, in quanto soggetto separato, assume il cibo, il latte, prodotto dal seno della madre. In alcune culture l’allattamento viene espresso come “mangiare la madre”. È comprensibile l’”imprinting” che l’oggetto cibo riceve in termini di: segno di nutrimento vitale, di presenza, di accudimento e di relazione amorosa con la madre.
All’ inizio il cibo, il latte, il seno, la madre sono vissuti come un unico oggetto dall’infante in una situazione di fusionale indifferenziazione (fase simbiotica della Mahler). Dunque, l’alimentazione è la base biologica su cui si declinano relazione e affetti del bambino. L’assenza del cibo è l’assenza della madre. Le oscillazioni della alimentazione riflettono quelle relazionali con la madre. Il primitivo NO verso la madre può essere espresso come rifiuto della alimentazione ed il mangiare riceve l’”imprinting” di esperienza primaria della relazione d’amore e di accudimento con l’Altro.
La frustrazione della perdita della “fusione” con l’ oggetto primario, la madre, rimarrà impressa nel vissuto psichico fantasmatico dell’ alimentazione: il cibo dunque rifletterà l’ Oggetto investito di amore/odio/piacere/rabbia con cui la relazione potrà oscillare tra i due estremi comunicativi:
-il NO, rifiuto totale, restrizione alimentare (tendenza anoressica) -il SI, desiderio totale, spinta ad una incorporazione onnipotente del cibo nel tentativo di restaurare la fusione con l’oggetto, bramosità infinita del cibo (tendenza bulimica).
In sintesi: -IL CIBO rappresenta per l’uomo, nel profondo, l’Oggetto Madre-fonte di amore, nutrimento e vita
-L’ ALIMENTAZIONE è la prima relazione con l’oggetto non animato, Altro da Sè, in cui il bisogno da pulsione si intreccia con il desiderio di relazione con l’Altro.
2.Il cibo e la relazione con il Sé e con l’altro da Sé
L’ alimentazione, dunque, veicola l’esperienza di una relazione affettiva con un Altro da Sé in cui si incontrano buoni nutrimenti e buone emozioni che generano nell’ accudito benessere e sviluppo. Successivamente la relazione affettiva si separa da alimentazione e cibo ma ne mantiene un forte collegamento inconscio e simbolico per tutta la vita e laddove la relazione umana diventa carente o impedita sembra che l’alimentazione assuma un ruolo vicariante.
3.Relazione tra alimentazione, Sé, emozioni, corpo ed immagine corporea:
L’ alimentazione umana è una esperienza che comporta contemporaneamente processi psico-fisiologici ed interpersonali all’ interno di uno specifico contesto culturale. L’ organizzazione del Sé, il mondo interpersonale familiare, le emozioni, l’esperienza corporea e l’immagine corporea influenzano l’alimentazione nella scelta, nella preparazione del cibo, nella composizione dei principi nutrienti, nella assunzione e nella consumazione dei pasti.
L’ allattamento materno del bambino costituisce, dopo la fase intrauterina, la primitiva esperienza di nutrimento, accudimento, relazione emotiva con l’Altro da Sé, una “base sicura “seppure successivamente “Eden perduto”.
Di qui si comprende come la difficoltà nella gestione delle relazioni umane e delle emozioni può portare ad un ritiro difensivo, dall’ esperienza interpersonale con oggetti umani a quella più rassicurante con uno sostituto inanimato come cibo che però “ricorda” l’Altro (la madre).
Restrizione, dis-controllo, abbuffate, eccessiva bramosia seguita da vomito o altre condotte espulsive, iperalimentazione abituale, scelte dis- nutrizionali dell’alimentazione, possono fungere da inconscia espressione di malessere ma anche regolazione delle emozioni, dell’autostima e per inconscio evitamento di un mondo interpersonale vissuto come inaffrontabile.
4.Gli effetti dei disturbi del Sé e dell’immagine corporea sulla alimentazione
Carenze, fragilità del senso di Sé” e soprattutto le percezioni in sé, stabili e diffuse di difettosità, negatività, non-valore, confusione, inconsistenza, imperfezione, “impresentabiltà”, strutturatesi già nell’ infanzia, spesso a causa di deficit di accudimento in contesti familiari psicopatologici, nella fase evolutiva, influenzano negativamente il vissuto dell’ immagine corporea, attualmente già intensamente e diffusamente condizionato dai “mass-media” e dalla cultura consumistica, e ne determinano i frequenti disturbi dell’ immagine corporea ( dispercezioni e vissuti di immagine corporea negativa, insoddisfazione corporea). Questi associati alla dispercezione e disregolazione delle emozioni e alle fobie elevate delle relazioni interpersonali, conducono, all’ interno di una complessa eziopatologia multifattoriale, tra cui una frequente psicopatologia familiare, alla comparsa dei disturbi dell’alimentazione e nutrizione.
Dopo vari mesi in cui oltre a concentrarci sulle sue emozioni legate alla quotidianità e provare una sorta di esercizio di alfabetizzazione emotiva, cercando di legare i suoi pensieri alle emozioni che sente..c’è una svolta importante in cui mi dice: “alla fine i miei genitori mi hanno sempre vista la pecora nera rispetto a mia sorella, loro a tutte le mie richieste rispondono di no…mangiando di notte non possono dirmi nulla…mia mamma, anzi, mi dice spesso che mangiando così poco a tavola non posso essere così grassa…ma nonostante tutta vede solo mia sorella…”
La famiglia, in quanto matrice dell’identità e luogo di definizione del sé di ogni suo componente, è il contesto all’interno del quale modalità relazioni disfunzionali diventano promotrici di condotte sintomatologiche rilevanti. Nell’approccio terapeutico di tipo familiare diventa importante osservare e valutare le relazioni che intercorrono nella famiglia, i triangoli di alleanze e complicità tra i suoi componenti ed i miti che attraversano le generazioni. Diversi autori, partendo da questi presupposti, hanno individuato alcune caratteristiche specifiche e ridondanti nelle famiglie in cui è presente un soggetto con un disturbo alimentare:
Iperprotettività:
1. i membri della famiglia sono sensibili a qualsiasi segnale di malessere, attivando risposte di protezione e di difesa che ritardano le spinte all’autonomia e alla differenziazione;
Invischiamento
2. (mancanza di confini): ciascun membro della famiglia è ipercoinvolto nella vita di ogni altro membro della famiglia al punto che nessuno esperisce un senso di identità separata. In queste famiglie, secondo Minuchin, sono stati eretti confini molto solidi tra l’interno e l’esterno della famiglia, ma all’interno invece i confini sono molto labili ed esiste poca differenziazione tra un membro e l’altro a discapito dell’individuazione e dell’autonomia personale;
Rigidità ed evitamento del conflitto
3. secondo gli studiosi in molte di questa famiglie si dà grande rilevanza al comportamento educato e rispondente ai canoni sociali; i genitori sono fieri della loro bambina perfetta che non ha mai manifestato i comuni atti di insubordinazione infantile, come il contraddire, la caparbietà o l’ira. Il conflitto viene evitato e la famiglia mantiene uno status quo piuttosto rigido e stereotipato che non cede mai il passo al nuovo e al cambiamento. La mancata espressione dei sentimenti, specie di quelli negativi diventa una regola generale finché non si manifesta il problema e l’antica bontà si trasforma in un negativismo indiscriminato.
In quest’ottica, inoltre, si osserva come il cibo può essere utilizzato per scopi che oltrepassano la sua mera funzione nutritiva, assumendo connotazioni ricattatorie, rivendicative o anestetizzanti nei confronti del dolore e della sofferenza. Il cibo può diventare così oggetto d’amore o espressione del linguaggio dell’affetto che sostituisce la parola, che placa gli animi e appaga i bisogni che non trovano ascolto, dove talvolta l’adipe può funzionare come un cuscinetto che difende dalla paura di crescere e di confrontarsi con il nuovo.
Il modello sistemico relazionale, lavorando con i sistemi familiari, interviene sulle condotte relazionali che “sostengono” il sintomo e che rendono spesso inefficace qualsiasi tentativo di intervento nella direzione di un’adeguata educazione alimentare.
Dopo varie sedute invito anche la famiglia di Corinne e decido, sempre, insieme a lei di coinvolgere in alcuni incontri anche la famiglia in primis per leggere le dinamiche che lei vive nel quotidiano e poi per cercare un modo più sano di comunicare sia con i genitori che con la sorella, affinché non debba chiudersi nel silenzio del cibo e delle abbuffate per mostrare che esiste.
Il percorso con Corinne è ancora lungo, ma oggi con l’aiuto delle sue emozioni siamo già in cammino.
[1] Il Disturbo da alimentazione incontrollata (DAI), o Binge Eating Disorder (BED), è un disturbo della condotta alimentare relativamente giovane, nel senso che il suo riconoscimento è avvenuto solo intorno al 1992 ma, nonostante tutto, destinato ad un rapido aumento tra la popolazione.
Per molto tempo si è pensato fosse solo un sintomo della più conosciuta bulimia nervosa ma in realtà rappresenta una vera e propria alterazione del comportamento alimentare. Presenta delle specifiche caratteristiche legate alla ricorrente presenza di abbuffate che, al contrario della bulimia nervosa, non prevedono strategie compensatorie (vomito, assunzione di lassativi, digiuno o massiccio esercizio fisico) atte a ridurre l’incremento ponderale.
Questo comportamento fagocitante incontrollato era già stato osservato nel 1959 da Stunkard in sottogruppi di pazienti obesi che, durante delle vere e proprie crisi compulsive, ingerivano una consistente quantità di cibo perdendo il controllo sul proprio comportamento.
La diffusione di questo disturbo della condotta alimentare sembra abbastanza omogenea nella popolazione in quanto colpisce uomini e donne in egual misura, senza distinzione di razza.
Viene diagnosticato più facilmente in soggetti adulti tra i 30 e i 40 anni ma spesso si scopre che queste persone soffrivano di disturbi alimentari fin dall’adolescenza.
È presente nel 30% circa dei casi di obesità che richiedono una cura per la loro situazione, nel 2-3% di tutti i soggetti obesi e, nell’80% di questi ultimi casi, compaiono anche disturbi dell’umore e altri quadri psicopatologici.