il trauma interno non ha parole se non è aiutato ad averne

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Teresa Colaiacovo - il trauma interno non ha parole se non è aiutato ad averne

Massimo (nome di fantasia) è un ragazzo di 19 anni, mi contatta per avere un supporto psicologico in seguito alla fine del suo rapporto di coppia con ragazza sua coetanea.

All’appuntamento si presenta con un fare imbarazzato, un viso irrequieto e gli occhi lucidi.

Mi dice che sta soffrendo tantissimo perché non capisce le motivazioni per la quale la fidanzata lo ha lasciato, senza alcuna spiegazione.

È un fiume in piena, racconta di messaggi, chat e parole che sembrano non avere senso.

Gli chiedo di fermarsi e di raccontarmi il primo incontro con questa ragazza e chi pensa lei sia.

Mi dice: “Serena è una ragazza splendida, bellissima, ma ha problemi con il cibo, lei non si piace e pensa di distruggere tutto ciò che tocca ed io voglio aiutarla, voglio salvarla…”.

Gli chiedo, allora, di raccontarmi un po’ di sé, di che ragazzo era prima di questo rapporto.

Mi racconta che i genitori sono separati, che lui vive con la madre perché il padre lo picchiava, fin da bambino il padre lo puniva rinchiudendolo in stanza al buio.

Mi racconta di un’infanzia ed un’adolescenza solitarie, di una scuola che non gli piace e che l’unica cosa bella è Serena, anche perchè sottolinea: “io ho un corpo terribile..”

Lei è l’unica che riesce a toccarlo, accarezzarlo, senza che lui provi dolore.

Penso al dolore antico di Massimo, alle cicatrici, metaforiche e non, che deve avergli lasciato un padre abusante.

Massimo mi distoglie dai miei pensieri, dicendomi: “Dottoressa come faccio a tornare con Serena?”

L’analisi della domanda nel colloquio psicologico è importante,  essa opera attraverso il “qui e ora” della relazione tra psicologo e consultante (individuo, gruppo, organizzazione o sistema sociale) sul “là e allora” delle dinamiche relazionali vissute da quest’ultimo nel proprio contesto di vita o professionale, che sono alla base del problema da cui scaturisce la richiesta di intervento psicologico (Carli & Paniccia 2003).

 l’obiettivo principale di questa metodologia diventa il recupero – da parte di colui che richiede l’intervento psicologico (individuo, gruppo, organizzazione o sistema sociale) della propria capacità decisionale (Grasso & Salvatore 1997), intesa come la competenza a definire obiettivi congruenti con le condizioni del proprio contesto e perseguirli efficacemente.  Elemento centrale, intorno a cui ruota l’intervento psicologico cosi configurato, sono le emozioni, intese come connotazione affettiva dell’esperienza soggettiva, che orientano all’azione secondo una logica opposta a quella dividente e specificante della razionalità, e tesa invece a creare simmetrie e generalizzazioni nell’esperienza soggettiva della realtà (condizione per cui gli opposti possono coincidere e la parte corrispondere al tutto), come ha ben chiarito lo psicoanalista cileno Ignatio Matte Blanco (1981) con la sua teoria della bi-logica mentale conscia-inconscia.

La richiesta di aiuto di Massimo (come essere ancora il fidanzato di Serena) può rappresentare la domanda esplicita del soggetto, ma spesso quella implicita può essere celata dietro al non verbale, dietro a meccanismi inconsci che lo portano qui da me.

La volontà di salvare Serena potrebbe rappresentare il desiderio di salvare sé stesso da quella sofferenza antica che fa sì che, nel qui ed ora, non riesca a guardare i colori che ogni giornata offre ai nostri occhi.

Chiedo a Massimo cosa gli piace fare al di là di Serena, mi racconta che non ha altre cose belle, non ha mai avuto tempo per le passioni perché era troppo impegnato a combattere il padre e ad aiutare la mamma che in quegli anni era spenta.

Cerco di approfondire le dinamiche della sua infanzia, perché la sua scarsa autostima potrebbe esser nata lì.

Non ha voglia di parlarmi della sua infanzia, mi ripete che è venuto da me perché vuole ritornare con Serena e perché vuole salvarla.

Allora gli dico che per essere il fidanzato di qualcuna deve prima riuscire a prendere per mano il bambino che era, quel bambino troppo impegnato a proteggersi e a proteggere.

Mi dice con fare irritato: “come faccio a prendere per mano Serena?”

Gli rispondo che per vedere la mano di Serena deve fare prima un po’ di luce al suo buio, perché spesso se non vediamo noi stessi finiamo per credere che gli Altri (ed in questo caso Serena) siamo noi.

Non è convinto, anzi è nervoso, mi dice che non capisce le mie parole e che ha bisogno di soluzioni pratiche.

Allora gli dico di scrivere per la prossima volta tutto ciò che di bello ha il suo rapporto con Serena e tutto ciò che ha di brutto, poi gli chiedo di fare la stessa cosa scrivendo tutto ciò che ha di bello il suo corpo e tutto ciò che ha di brutto secondo lui.

Lui mi dice: “Dottoressa può andare anche bene, ma che me ne faccio se questo non fa tornare Serena con me?”

Gli rispondo che non ho la bacchetta magica per portare Serena da lui, ma posso solo portare lui da sé stesso.

Decido di parlargli come ad una persona adulta: “ Massimo, se non affronta prima i nodi della sua vita, ogni rapporto che avrà anche nel futuro la porterà ad allontanarsi da sé stesso per salvare l’altro… ma lei non è il principe azzurro, però, può riparare sé stesso.

“ ok Dottoressa, faccio come dice lei, ma sappia che se Serena non torna con me io interrompo il rapporto con lei perché non me ne faccio nulla di me senza Serena”

Gli dico: “ok Massimo, intanto può ritenersi un po’ soddisfatto perché io oggi l’ho vista… e non ho visto il suo corpo brutto, come mi ha detto, ma degli occhi pieni di speranza..”

Concludo dicendo di riflettere su una domanda: “ cosa gli direbbe il bambino di 10 anni che era vedendolo oggi…”

Si alza e se ne va, dicendomi: “Forse fisso il prossimo appuntamento..”

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