“E’ fuggito dal labirinto della realtà ed è finito sotto la ruota dei sogni!”,  M.Kuzmin.

Gli hikikomori, termine giapponese che significa “stare in disparte”, viene utilizzato per indicare chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi, alle volte anni. Rinchiusi nella propria abitazione, evitano qualunque tipo di contatto diretto con il mondo esterno, talvolta anche con i familiari. Gli Hikikomori sono soprattutto giovani tra i 14 e i 30 anni, maschi nel 70-90% dei casi, anche se il numero delle ragazze isolate potrebbe essere sottostimato dai sondaggi effettuati finora. Le indagini ufficiali condotte finora dal governo giapponese hanno identificato oltre 1 milione di casi, con una grandissima incidenza anche nella fascia di popolazione over 40. Questo perché, nonostante i soggetti hikikomori si palesino principalmente durante l’adolescenza, la condizione tende a diventare cronica, rischiando di perdurare anche tutta la vita. In Italia, soprattutto a seguito della pandemia che ha estremizzato il problema, l’attenzione nei confronti del fenomeno sta aumentando. Nel nostro paese non ci sono ancora dati ufficiali, ma si stima ci siano circa 100.000 casi.

Sono ragazzi, quindi, che si ritirano dal mondo, passando gran parte del tempo usando videogiochi e rifugiandosi in un mondo virtuale come fuga da una realtà esterna che sembra terrificante. La madre di Angelo, nome di fantasia, mi contatta perché lei stessa ha perso contatto con il figlio, perché il ragazzo, 15 anni, vive in camera, con le tapparelle abbassate, legato solo ai videogiochi. Iniziamo con primo colloquio online, Angelo mostra una certa resistenza e diffidenza e vuole tenere il video spento. Lo accontento, mi presento, a mia volta mi sembra di fare un monologo, anche perché lui risponde a monosillabi.. mi dice solo che la madre gli ha vietato di giocare ai videogiochi, staccando la presa e lui è arrabbiato. Gli chiedo cosa ama fare, cosa amava fare da bambino, che musica ascolta e se guarda dei film.. le sue risposte sono monosillabiche e quasi nervose. Gli chiedo se gli piace scrivere, mi dice che non lo ama, ma a volte lo fa. Gli chiedo di scrivere per la prossima volta ciò che sente, cosa gli provoca la rabbia, e di scrivermi cosa gli direbbe il bambino di 7 anni che era al lui adolescente, oggi. Chiudiamo la conversazione così. Ho più incognite che certezze.

Spesso questi ragazzi sono dotati a livello cognitivo, fanno uso di un pensiero concreto, ma con il tempo, perdendo via via i contatti con il mondo, il pensiero si impoverisce e con esso anche l’attitudine al dialogo e alla comunicazione. La tecnologia sempre disponibile diventa una sorta di protesi fisica, accessibile sempre e sotto il loro dominio, a differenza della realtà e delle relazioni interpersonali che sono fatte di imprevisti. La tecnologia, come rifugio, quindi, rispecchia la loro possibilità di governare e gestire e colma il loro vuoto. Nel secondo colloquio Angelo, sempre con la telecamera spenta, mi legge ciò che ha scritto. “…mamma mi ha staccato la presa ed io sono diventato aggressivo e l’ho maledetta come quando mi costringe ad andare a scuola..” Gli ho chiesto cosa fosse per lui la scuola e mi ha detto: un posto dove mi giudicano. Il giudizio mi dice che per lui è terrificante, gli fa venire mal di pancia. In quel momento ha iniziato a parlarmi male dei compagni e insegnanti. La svalutazione in questo caso diventa un meccanismo di difesa per non mostrare un’estrema fragilità narcisistica che camuffava attraverso il gioco tecnologico che lo stordiva e continuava a riempirgli il vuoto. Capisco che Angelo ha paura di sé prima che degli altri, perché aveva un estremo bisogno di relazioni e conferme, ma era terrorizzato dal rifiuto, dal giudizio, dalla solitudine e dall’esclusione.

Mi racconta ancora della sua rabbia nei confronti della mamma che ha staccato la presa e lo vuole abbandonare ecco perché vuole mandarlo a scuola. Staccare la presa poteva somigliare al far cadere un neonato, fuori da questi momenti per lui la madre era un rifugio infantile e primitivo che lo proteggeva dal mondo esterno… quando gli chiedo con un aggettivo di descrivermi la mamma, mi dice: “mia, ma ora la odio”. Il rapporto fusionale con la mamma mi ricorda il suo rapporto con la tecnologia. Quando continua a leggermi ciò che ha scritto, lo fa con una voce quasi sofferente: “… il bambino di 7 anni che ero giocava a pallone e aveva amici che lo hanno abbandonato perché mi sono trasferito, quello scemo li mi direbbe di uscire, muovermi, vedere il sole e addirittura conoscere altre persone..” Gli dico: “ma quel bambino che tu dici scemo, era felice?” Lui mi dice di si e mi racconta delle cose che lo rendevano felice. Io, a quel punto, gli chiedo se mi fa vedere i suoi videogiochi e me li spiega perché io di tecnologia non capisco nulla. Lui prontamente accende la webcam e mi presenta e mostra il suo videogioco.

La webcam aperta è sparita perché lui è immerso nel suo mondo e mi ci sta facendo entrare. Mentre parla gli dico: “hai degli occhi bellissimi..” Lui mi dice che non ci vede bene perché passa troppe ore al computer. Gli mostro i miei occhiali e gli dico che li colleziono, lui sembra sorpreso. Gli dico che se vuole posso mandarlo dal mio oculista e che può mandarmi le foto delle varie montature, così lo aiuto a scegliere quelli che gli stanno meglio. Mi dice di sì, ma solo se la mamma lo fa giocare perché gli occhiali gli servono per giocare meglio. Gli dico che la mamma gli può concedere due ore se lui va dall’oculista. Reticente accetta. Non so come si evolverà il rapporto con Angelo, ma so che un primo passo c’è stato e mi piace dare potere ai primi passi, anche perché è innegabile che anche un viaggio di mille miglia inizia da un primo passo.